Un seme di Vangelo (Lc 15, 1-32). Senza nessuna parola di rimprovero, senza aprire un conflitto, il padre della più celebre delle parabole (Lc 15, 11-32) divide le sue sostanze tra i figli e lascia che il più giovane parta per un paese lontano. E’ da questa evocazione evangelica che possiamo trarre un’ispirazione che raccoglie la sfida posta alla Chiesa dalla distanza dei giovani. Il comportamento del padre del racconto di Luca è, in apparenza, frutto di un atteggiamento rinunciatario che appartiene, tuttavia, oggi a molti padri e molte madri (al nostro mondo adulto in generale e non solo alla Chiesa), ma è anche, sotto un altro punto di vista, un assenso che possiamo giudicare incomprensibile, sul quale una significativa parte del mondo adulto avrebbe da obiettare. Deve questo padre piegarsi alla domanda imperativa del figlio e alla sua arroganza (“dammi!”)? O non dovrebbe piuttosto resistere esercitando un’autorità del tutto comprensibile?Senza nessuna parola di rimprovero, senza aprire un conflitto, il padre della più celebre delle parabole (Lc 15, 11-32) divide le sue sostanze tra i figli e lascia che il più giovane parta per un paese lontano. E’ da questa evocazione evangelica che possiamo trarre un’ispirazione che raccoglie la sfida posta alla Chiesa dalla distanza dei giovani. Il comportamento del padre del racconto di Luca è, in apparenza, frutto di un atteggiamento rinunciatario che appartiene, tuttavia, oggi a molti padri e molte madri (al nostro mondo adulto in generale e non solo alla Chiesa), ma è anche, sotto un altro punto di vista, un assenso che possiamo giudicare incomprensibile, sul quale una significativa parte del mondo adulto avrebbe da obiettare. Deve questo padre piegarsi alla domanda imperativa del figlio e alla sua arroganza (“dammi!”)? O non dovrebbe piuttosto resistere esercitando un’autorità del tutto comprensibile?

Non bisogna essere troppo severi con il figlio prodigo – scrive M. Recalcati – sebbene il suo primo passo (“dammi!”) sia un passo falso. La vita del figlio necessita del viaggio, porta con sé il suo segreto. Nondimeno il viaggio del figlio ritrovato inizia con una falsa partenza, quella della proclamazione di una libertà che respinge il debito simbolico. Il suo viaggio sembra – come quello di Edipo – compromesso sin dall’inizio. Il destino del figlio sarà di sprofondare nella dimensione nichilistica del godimento – del godimento mortale –, ovvero del godimento dissociato dal desiderio. Nel suo viaggio non c’è amore, né conoscenza, né realizzazione professionale o umana[1].

 Non ci interessa qui indagare sul fallimento esistenziale del figlio legato a questa libertà che diviene pura dissipazione, quanto piuttosto studiare l’atteggiamento e la scelta operata dal padre. Egli accetta, senza discutere, che tra lui e il figlio si compia una rottura “irreversibile”. Accetta che il figlio porti in sé un segreto per lui inaccessibile. Accetta un’alterità del figlio che lo pone di fronte a lui non in un’esperienza di appropriazione, ma di decentramento. 

Questo padre sa ciò che noi non accettiamo di apprendere. Sa che il figlio è chiamato a morire alla vita ordinaria legata alla famiglia e a tutto ciò che è stato appreso nell’infanzia; sa che in questa scelta, pur sbagliata nel contenuto, egli dà l’avvio ad un cammino di iniziazione, fatto di erranza e di godimento, ma tuttavia necessario per accedere ad una condizione adulta; sa che il figlio ha necessità di andare in un “paese lontano” ed è capace di sopportarne l’odio; sa che “il viaggio appartiene alla giovinezza, anche se la sua giusta esigenza è mescolata ad una rivendicazione irosa”[2].

Questo padre sa. Sa e non pretende di imporre al figlio il suo giudizio, la sua educazione, i tempi e gli spazi che lui ritiene necessari a farlo crescere. Sa e, invece di insistere al fine di cambiare la scelta del figlio, accetta piuttosto di cambiare sé stesso

Così, giacché egli sa quello che noi spesso non sappiamo, il padre lo lascia partire. Non trascorrono molti giorni dal momento in cui il figlio riceve quanto gli spetta in eredità, ma probabilmente sono molti, invece, i giorni che intercorrono dall’addio al momento del ritorno del figlio. Il Vangelo non si sofferma a narrare la pesantezza di questi giorni, non si attarda sull’incertezza che li pervade per il futuro del figlio, non ci racconta il dibattito interiore che avrà abitato il cuore del padre. Noi, a partire dal nostro vissuto nel quale sperimentiamo la distanza dei giovani, faremmo bene, invece, a meditare il mistero di questi giorni, perché sono i nostri, quelli nei quali rischiamo soltanto di dar voce ai risentimenti o alla stizza che ci abitano, o addirittura prestando corpo alle attese di “vendetta”. Talvolta, purtroppo, li viviamo quasi abitati all’oblio che, forse per troppo dolore, preferisce dimenticare il volto del figlio. Tante volte, nelle nostre chiese, diamo per persi i giovani e non ci pensiamo più!

Al termine di quei giorni, quando il figlio ritorna, benché non ancora iniziato ad una vita adulta libera e responsabile, il padre ci appare debole: si fa trovare lì, in attesa, piuttosto che farsi invocare e lasciarsi attendere da chi per tanto tempo ha fatto aspettare; si commuove e si lascia andare a gesti che testimoniano la sua dipendenza dall’amore del figlio; non dà tempo e spazio al figlio di giustificarsi, anzi di confessare il suo peccato come lui vorrebbe fare, benché non con una sincerità completa; lo riveste di dignità, lo reintegra nel patrimonio, prepara per lui una festa perché finalmente possa entrare (cfr. Lc 15, 20-24). 

Sì, il padre si racconta debole, vulnerabile all’amore. Non teme di narrare, con gesti e parole, questa sua debolezza. Sembra più interessato a comunicare quanto lui ha nel cuore piuttosto che ascoltare il doloroso racconto del figlio. Ma in questo suo protagonismo in cui non ascolta il figlio, in questa sua vulnerabilità non vi è nulla di egoistico, di auto-centrato: il padre vuole testimoniare di sé, vuole raccontare al figlio il suo amore.

Di che cosa, infatti, ha bisogno il figlio per vivere un ritorno autentico? Per vivere un ritorno più sincero e più maturo di quello che sta vivendo? Egli, infatti, torna perché ha fame, torna senza accettare il debito che ha con il padre, torna proponendosi con una identità non libera, ma ancora da schiavo. 

Il padre, raccontando di sé, mostrando la sua vulnerabilità, gli offre uno spazio libero: questo giovane non ha bisogno di un padre perfetto, ma di un padre che sappia raccontarsi, che abbia il coraggio della sua postura decisamente originale, inaspettata. Questo giovane ha bisogno di un padre che abbia rispetto di lui, del suo errore, della sua libertà sbagliata, perché sia lui, il figlio, a ridarle una forma finalmente adulta. Ha bisogno di un padre che narri come lui ama, non di un padre che lo rimproveri o che lo giustifichi. Egli non fa né l’una né l’altra cosa. Racconta la sua passione, senza vergogna, e insegna così indirettamente al figlio a fare altrettanto. Implicitamente chiede: ora che hai percorso la via inutile e dannosa del godimento, che cosa resta? Qual è la tua autentica passione? Hanno bisogno, i giovani, di una Chiesa così: di una Chiesa che assuma una postura inaspettata, di una Chiesa che non rimproveri, che non giustifichi, di una Chiesa che racconti la propria passione. 

don Ivo

(tratto da un suo articolo apparso su Lumen Vitae, Revue internationale de catéchèse et de pastorale, Vol LXXIII, n. 2 – 2018 , pp. 187-191)

[1]M. Recalcati, Il segreto del figlio. Da Edipo al figlio ritrovato, Feltrinelli, Milano, 2017, p. 76.

[2]Id., pp. 78-79. 

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