Dal vangelo secondo Giovanni

Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro:

«Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».

Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro.

Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò.

Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte.

Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti.

 

La tomba è vuota.

Nel giorno di Pasqua gli amici di Gesù non incontrano nessuno.

Solo uno spazio vuoto, un sepolcro abbandonato.

Il vangelo del giorno di Pasqua ci parla di un’assenza.

Di un’assenza che interpella, che mette in moto, che accende domande.

Ma di un’assenza, non di una presenza.

 

La nostra Pasqua 2020 assomiglia molto alla prima Pasqua.

Anche noi viviamo un’assenza. Incontriamo solo uno spazio vuoto.

E’ lo spazio lasciato vuoto dall’assenza dei nostri riti, delle nostre liturgie.

Sentiamo questa assenza, viviamo una mancanza.

Ma è anche lo spazio vuoto lasciato dalla impossibilità di incontrare la comunità.

Il corpo dell’altro ci è sottratto, come è sottratto, ai suoi amici il corpo di Gesù.

 

Sì, questa misteriosa Pasqua assomigli alla prima Pasqua, quella vissuta dai discepoli di Gesù.

Sgomenti anche loro, come noi, di questa assenza, là dove lo volevano incontrare.

 

Facciamo anche noi, con speranza, nonostante i giorni difficili, nonostante la paura, al di là le preoccupazioni per il futuro, superando la sofferenza per non poterci incontrare, salutare, abbracciare, accettando la tristezza di non poter vivere i nostri riti pasquali… facciamo anche noi il cammino di Maria di Magdala, di Pietro e del discepolo amato.

 

Essi cercano Gesù, come noi lo cerchiamo in ogni nostro incontro, in ogni liturgia.

Lo cercano, ma lui è assente, sottratto: “dove lo hanno posto?”.

 

Lo cercano, come Maria di Magdala, con uno sguardo ordinario, quotidiano: guardano e vedono che il corpo non c’è.

Lo cercano e dicono parole ordinarie, le solite parole: “hanno portato via il Signore!”.

Vivere la Pasqua, e vivere il tempo presente ci invita a superare una parola troppo ordinaria, banale, scontata. In questo tempo difficile sentiamo che le parole rischiano di essere stanche e vuote, a cominciare dagli slogan – del tutto ben intenzionati – come “andrà tutto bene”.

Ci vogliono parole più profonde, abbiamo bisogno di parole più sapienti.

 

Lo cercano, come Pietro, con uno sguardo indagatore: osservando, valutando, riflettendo… ma l’enigma rimane.

Lo cercano con parole scientifiche con termini adeguati al problema.

Per vivere la Pasqua nel tempo presente che affrontiamo non bastano le parole dell’interpretazione del fatto: coronavirus, contagio, carica virale, tampone, ventilazione, …

Anche queste parole, benché necessarie, rischiano di esser parole insufficienti, stanche e vuote anch’esse dopo la novità, dopo che ad esse ci siamo abituati.

 

Lo cercano, come il discepolo amato, in un silenzio profondo e con rispetto.

Egli si ferma, non entra, finché il primo degli apostoli non sia entrato.

Vivere questa Pasqua, oggi, significa forse cercarlo come lui cerca: lui “vide e credette”.

Che cosa credette? Non lo sappiamo.

Si fidò. Questo forse dice il Vangelo.

Vide quello che vedevano gli altri: la tomba vuota, un segno incomprensibile.

Ma si fidò: delle parole dette da Gesù, delle sue promesse, di un amore più forte della morte.

Di una relazione che la morte non può sconfiggere.

Si fidò.

E questa è una parola diversa: non stanca e vuota. Piena di vita e di speranza.

 

Vogliamo fidarci anche noi, in questa Pasqua strana, simile alla prima Pasqua.

Fidarci anche se non capiamo.

Fidarsi anche se non abbiamo parole per dire, parole per capire.

Vogliamo fidarci.

E, in attesa, provare piano piano a “leggere le scritture” che ancora non comprendiamo.

Lì ci sono parole che non sono stanche e vuote.

Lì ci sono parole che sono capaci di farci comprendere che Gesù è risorto e che non siamo soli.

 

Anche i discepoli, il giorno di Pasqua, “non avevano ancora compreso”.

Questo ci conforta.

Non siamo soli!

Anche loro, come noi, “non avevano ancora compreso”.

Per noi, quindi, che non abbiamo ancora compreso, c’è una parola di speranza.

Non una parola vuota, non una parola stanca, ma una parola viva.

Noi ci fidiamo.

Ci fidiamo di Gesù, del suo amore più forte della morte.

Della sua tomba vuota, più piena di presenza di ogni nostro incontro.

Della sua croce ignominiosa, più ricca di onore di ogni nostra .

Della sua passione dolorosa, più gloriosa di ogni nostro successo.

 

Ci fidiamo del Signore risorto.

E’ dalla sua morte che nasce la vita nuova, dalla sua tomba vuota riparte l’avventura dei discepoli.

Da questa assenza, da questo vuoto di riti, di incontri, di comunità il Signore può far nascere una vita nuova.

Noi ci fidiamo.

E cerchiamo parole nuove, parole che provino a sfondare il muro del mistero.

d. Ivo

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