“Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!” Un grido di dolore, di sconforto; c’era una speranza, che Gesù arrivasse in tempo per salvarlo, per guarirlo… ma così non è stato: Lazzaro è morto. Si dice che “la speranza è l’ultima a morire”, e qui è morta. Forse anche noi abbiamo questa aspettativa: che Dio intervenga prima che sia troppo tardi, che non ci faccia ammalare di questo virus, che questo periodo finisca presto, che tutto torni come prima… La speranza è sempre quella di riuscire a scampare il pericolo più grande, di evitare “le morti”; in fondo non vogliamo confrontarci con la realtà, la dura realtà, che smentisce le nostre aspettative, demolisce alcune certezze, toglie persone care, fa crollare alcune nostre impostazioni di vita. “Ho confidato in Dio; mi liberi lui, ora, se mi vuol bene” (cf. Mt 27,43). Ma questa speranza si dissolve davanti alla tomba di Lazzaro, davanti ai problemi che siamo chiamati ad affrontare. Ma è questa la speranza evangelica? Il brano di questa domenica ha molto da insegnarci.
Un primo punto: il brano racconta che Gesù non arriva in ritardo; egli decide di aspettare. Non è un incidente, ma è una scelta precisa: non vuole guarire un malato, vuole far rivivere un morto. Credo che l’attesa di Gesù sia proprio per far morire questa nostra falsa speranza, una speranza che non dura, che è effimera, che si arresta davanti alla dura realtà. Nel tempo del #andràtuttobene, #celafaremo, #modenanonsiferma… ci possiamo chiedere: sto prendendo sul serio la realtà? Perché ripetere slogan che rassicurano senza rispettare ciò che accade, è un doppio tradimento: tradisco l’intelligenza e la fiducia degli altri (che prima o poi si accorgono che non va tutto bene), tradisco la verità dei fatti, la vita che è maestra. Questa finta speranza che non vuole vedere la realtà si chiama illusione. Subito è rassicurante, ci consente di vivere “come se nulla fosse”, ma diventa tragica nel momento in cui l’illusione si spezza (perché la realtà torna a far tremare le nostre stupide ed effimere convinzioni). La speranza è innanzitutto assunzione di realtà, anche quando è scomoda.
In seconda battuta la speranza richiede di riconoscere dove si vive l’amore. Gesù, dopo aver accolto il grido disperato di Marta, fa sentire tutta la sua forza: lui continua ad amare Lazzaro, e interroga loro sulla loro fede in lui (“Io sono la risurrezione e la vita. […] Credi questo?”). È come se Gesù chiedesse: “Sei salda nel mio amore? Ti affidi ancora a me, che parlo con te, e al bene che voglio a te e a voi?” Solo l’amore, vissuto, scambiato e ridonato, può vincere i momenti più difficili. Penso ai tanti medici ed infermieri, volontari, cassiere, poliziotti… alle tante persone che in questi giorni si stanno impegnando sfidando veramente la morte; non ho sentito nessuno di loro farlo a cuor leggero, ma tutti per una passione che va oltre alla paura del contagio.
Gesù fa compiere a Marta e Maria – e a noi con loro – Solo dopo questi due passi la speranza diventa uno sguardo rivolto al futuro, sul domani in cui sono chiamato a spendermi: solo l’amore, calato in questa realtà, è capace di darci forza in periodi difficili, ci spinge ad un impegno più forte e saldo, ci fa assumere responsabilità più grandi, ci prepara a compiere dei passi più costosi per il bene personale e collettivo. Solo una speranza così è capace di sostenerci nei tempi più difficili. Quando sentiamo che le nostre speranze vacillano o si infrangono, è il momento di lasciarci accompagnare da Gesù, passo passo, verso quel sepolcro; proprio lì Gesù può mostrare la sua vitalità, la sua passione che è capace di richiamare alla vita. Lì dove le speranze effimere muoiono può nascere una nuova e ben diversa speranza.
Ravviviamo la nostra speranza: abbracciamo la realtà, viviamo nell’amore, con fiducia e impegno.