Domenica 17 aprile, la parrocchia della Madonna Pellegrina ha ospitato Enzo Bianchi, priore di Bose, per un incontro di riflessione sul capitolo 20 di Giovanni. Per più di un’ora, con la solita forza di penetrazione che lo contraddistingue, Padre Bianchi ha guidato l’assemblea alla scoperta di una pagina evangelica estremamente densa, ricca di simboli da decifrare e di esperienze indescrivibili a parole, seppur umanissime. La risurrezione è apparsa così il frutto di un cammino progressivo della comunità, iniziato ‘il primo giorno della settimana’ ma continuato ogni ‘otto giorni’, nella celebrazione dell’Eucarestia; un cammino segnato dalla scoperta dei segni e dalla testimonianza di un incontro, ma anche dalla non fede e dalla paura; un cammino che si apre alla vita da risorti per tutti i credenti nella capacità di perdonare i peccati. Dalla ricchezza di questo percorso raccogliamo quattro temi, attraverso cui calare nella concretezza della nostra vita personale e comunitaria la dinamica della risurrezione.

Il centro della comunità. L’esperienza fatta dai discepoli la sera di Pasqua è qualcosa di indescrivibile: Gesù viene, ma al tempo stesso sta in mezzo. Gesù è visto dai discepoli al centro della loro assemblea, come colui che crea e dà comunione, colui che attira a sé tutti quelli che credono in lui. In questa immagine c’è la comunità cristiana, con al centro Gesù risorto vivente. Bianchi ammonisce con forza ogni presbitero: “Questa centralità di Gesù non deve essere mai sottratta, mai offuscata; anche nelle nostre assemblee, chi presiede la comunità nel nome di Gesù non deve mai offuscare la centralità del Signore vivente”. E ancora: “Non è il presbitero a presiedere in modo autonomo da Cristo; il presbitero può essere solo un segno, perché al centro c’è sempre il Signore risorto. Quindi la logica della presidenza è simbolica e sacramentale, perché chi presiede deve ‘far segno’ del Signore vivente, vero presidente della comunità”.

Le ferite. L’attenzione particolare di Giovanni per le ferite del Risorto sono il modo per indicare che la risurrezione è qualcosa che investe pienamente la nostra umanità. Non si tratta semplicemente della rianimazione di un cadavere, ma di un corpo che ora vive nel respiro dello Spirito; e le ferite dei chiodi e della lancia indicano la sua vita concreta che non viene cancellata, così come nella nostra vita i segni delle sofferenze non si cancellano, anche quando perdoniamo sinceramente il male ricevuto. Nell’incontro con Gesù, Tommaso vede proprio questo: lì c’è la vita concreta del Signore, ferita dal male e dal tradimento, ma c’è anche la carne ferita di Tommaso, la carne ferita di tutti gli uomini. Siamo di fronte ad uno dei misteri più grandi della nostra fede: noi sappiamo per fede che, dal momento dell’ascensione al cielo, il Figlio siede accanto al Padre insieme alla nostra umanità – nella concretezza dell’amore che ha saputo esprimere – resa trasparenza dello Spirito.

Il perdono dei peccati. Con l’effusione dello Spirito, il Risorto affida ai discepoli una missione: perdonare i peccati. È questa la strada attraverso cui è possibile costruire la comunione, e non si tratta di un compito affidato solamente ai confessori: Gesù qui parla ad ogni credente, che è chiamato nelle sue relazioni ad offrire e ricevere il perdono come antidoto al male presente nel cuore di ciascuno. Enzo Bianchi ci invita con forza a riconoscere la necessità del perdono reciproco, mettendoci in guardia dal sentirci ‘buoni’ (nemmeno i bambini lo sono!) e dall’illusione di una misericordia divina che non passi attraverso una concreta prassi di perdono del fratello. La parabola del servo spietato di Mt 18 è in tal senso una parola molto eloquente. “Inutile che ciascuno di noi chieda a Dio di perdonare i peccati se noi non li perdoniamo. Anche la riconciliazione che facciamo è distorta, perché pensiamo che basti chiedere perdono a Dio, ma dimentichiamo il Padre Nostro, quando dice che noi dobbiamo imparare a perdonare come siamo perdonati”.

La fede. Concludiamo con un accenno al tema della fede, che segna tutto il capitolo 20, ma in fondo l’intero Vangelo di Giovanni. Nel mostrare i segni delle ferite a Tommaso, Gesù gli rivolge un invito preciso: ‘non essere incredulo, ma credente’. Il male di Tommaso è infatti l’incapacità di credere, non solo a Dio, ma prima di tutto alla parola della comunità. Questo è, secondo Bianchi, il male più grande, perché taglia fuori dalle relazioni e impedisce di riconoscere la presenza del Signore risorto. A questo male fa da contraltare la più grande beatitudine – la ‘nostra’ beatitudine -, quella di coloro che crederanno senza avere visto, dando fiducia quindi alla testimonianza di una comunità che ‘ogni otto giorni’ si ritrova e scopre che al centro c’è il Signore e dona a ciascuno lo Spirito per vivere nel mondo la logica del perdono.

Don Raffaele Coppi