Omelia V domenica di quaresima A
Gv 11, 1-56

#noncirestachepiangere

1. Solitudini

Ancora un’omelia affidata soltanto al testo scritto.
Pronunciata davanti a nessuno.
Una parola detta senza vedere il volto dell’interlocutore, senza la possibilità di modulare la voce o di ritmare lo scorrere delle parole in relazione al feedback dei presenti, senza la possibilità di approfondire maggiormente un pensiero, anche come risposta alla lettura delle emozioni dei presenti espresse dai volti o in relazione ai segnali dell’attenzione decifrata dai gesti e dagli sguardi.
È difficile proporre un’omelia così.
Difficile perché l’omelia è davvero quel dialogo che per Papa Francesco è il momento nel quale “la Chiesa è madre e predica al popolo come una madre che parla a suo figlio, sapendo che il figlio ha fiducia che tutto quanto gli viene insegnato sarà per il suo bene perché sa di essere amato” (EG 139). Questo dialogo manca moltissimo, alla Chiesa e al Popolo.
L’isolamento imposto dalla necessità di contenere il contagio ci spoglia di questa comunicazione intima e impoverisce il nostro dialogo. L’incontro diviene più rarefatto e il legame deve esser custodito con una fedeltà più profonda, nello scrigno delicato dell’affetto e nella memoria degli incontri vissuti, delle esperienze che abbiamo condiviso. Una fedeltà che ha bisogno di preghiera.
In attesa del quotidiano bollettino di guerra, alle 18, consapevoli che dobbiamo moltiplicare per dieci il numero degli effettivi riconosciuti con il tampone, rifletto sul vangelo di Lazzaro, della prossima V domenica di quaresima, mettendomi in ascolto della situazione che stiamo vivendo.
E ai comprensibili inviti alla fiducia espressi dagli arcobaleni dei bambini associati agli hashtag #andràtuttobene o #celafaremo, aggiungo e propongo il mio hashtag personale: #noncirestachepiangere. Lo so che il riferimento è ad un film comico, di Roberto Benigni e Massimo Troisi uscito nel 1984 e che ha fatto ridere tutti. Ma in realtà la citazione nasce da una lettera di Petrarca che dice: «Non tutto in terra è stato sepolto: vive l’amore, vive il dolore; ci è negato veder il volto regale, perciò non ci resta che piangere e ricordare».

2. Una storia a lieto fine?

Non per cedere alla depressione scelgo questo hashtag “controcorrente”, ma per aderire alla realtà di questi giorni pesanti, pesantissimi per alcuni luoghi dove abitano anche alcuni amici, e anche per sintonizzarmi correttamente con questo racconto del Vangelo (Gv 11, 1-57), che personalmente amo molto.
Non è, questo racconto, un racconto di successo, non è un racconto a lieto fine.
Non è il racconto di un miracolo, il più grande tra quelli compiuti da Gesù, ma piuttosto un itinerario profondo al quale siamo accompagnati per interpretare e abitare anche il tempo che viviamo.
Gesù non ci viene presentato come vincente, ma nella sua debolezza: il racconto insiste nel presentarlo profondamente commosso (v. 33), nell’atto di scoppiare in pianto (v. 35), ancora profondamente turbato (v. 38): è difficile non rimanere colpiti dall’insistenza del racconto su queste emozioni forti di Gesù , non trattenute, cosa alla quale non siamo abituati.
E poi ci sono altri tratti misteriosi, che ci invitano a leggere dentro l’animo non immediatamente decifrabile di Gesù: perché rimane ancora due giorni una volta appresa la notizia della grave malattia di Lazzaro? (v. 6). Il suo comportamento ci evoca la reticenza degli ospedali a ricoverare, fino al punto estremo della necessità della terapia intensiva… E perché chiama Maria? (v. 28). Quando e come la chiama? E ancora: perché scoppia in un pianto dirotto se sa bene quello che sta per fare? (v. 35). E in che cosa consiste il suo ringraziamento al Padre? (vv. 41-42)
Insomma, il racconto scorre in un percorso che non appare immediatamente lineare. Non è una cavalcata verso il successo, la risoluzione positiva. I versetti finali (46-57) ci mostrano che, avvenuto il “miracolo” della resurrezione di Lazzaro, c’è ben poco da festeggiare.

3. Piangere con Gesù

Ascoltando lo scorrere del racconto sembra che Gesù abbia una sola preoccupazione: accompagnare le persone con sé quasi per assistere a questo suo pianto, più che verso una felice soluzione.
Lo dico perché il racconto è introdotto da un dialogo difficile: durante questo dialogo tra Gesù e i discepoli, dopo l’affermazione – misteriosa – che questa malattia non porterà alla morte ma alla glorificazione del Figlio dell’uomo (v. 4) – ecco l’incomprensibile attesa che dura due giorni… eppure Gesù ama Lazzaro, Maria e Marta (v. 5). Perché quindi attende? E una volta che decide, ecco che i discepoli sono perplessi: sanno che la Giudea è un posto pericoloso, e gli sconsigliano di andare (v. 8), ma poi, verificata la ferma decisione di Gesù, Tommaso afferma: “Andiamo anche noi a morire con lui” (v. 16). “Anche noi a morire con lui”: come accade oggi a medici e infermieri che non si sottraggono al prendersi cura, a costo del rischio di morire con.
Gesù trascina con sé i discepoli in un viaggio pericoloso, quindi. Che essi riconoscono tale. Ma non solo, perché Gesù chiama a sé, uno dopo l’altro, anche altri protagonisti.
A sé fa giungere Marta, che ritorna indietro per andare incontro a Gesù (v. 20) e intesse con lui un dialogo durante il quale mostra la sua profonda fede, e tuttavia il racconto mostrerà che si tratta ancora di una fede che davanti alla morte, rientra negli schemi di un ragionamento puramente umano: “puzza, perché è di quattro giorni” (v. 39). Come è simile alla nostra questa fede “certa” di Marta, una fede solida – come probabilmente abbiamo noi – e tuttavia incapace di superare il blocco in cui ci pone l’inequivocabile decreto della morte!
A sé Gesù chiama poi Maria attraverso l’invito della sorella (v. 28), mentre ella è paralizzata in casa dai riti del lutto, a piangere: perché la chiama a sé? Dove vuole condurla, lei, che nel vangelo ci è presentata come la donna dell’ascolto? (Lc 10, 38-42). Quale parola di vita vuole farle udire? Il testo non ce lo dice, lasciandoci solo intendere che anche lei sarà presente al pianto e alla tomba.
A sé Gesù conduce tutti i Giudei, che commentano con il pregiudizio di fede/non fede che ci anima tutti: “se Dio ama perché permette questo?”… essi dicono infatti: “Non poteva far sì che costui non morisse” (v. 37) se tanto lo amava (v. 36)?
Li conduce tutti lì, Gesù, al suo pianto. A questa lacerazione del suo cuore che egli non nasconde, di cui non si vergogna. Questo pianto è la pena di Dio davanti alla morte dell’uomo, il suo amico. La pena che il Signore vive per ogni uomo che muore solo: solo nel letto di una terapia intensiva, lontano da tutti gli affetti cari mentre viene meno il respiro; solo, allo stesso modo, sul barcone nel mezzo del Mediterraneo, strappato via dalla propria terra e tradito dai mercanti della morte.
Il racconto ci accompagna lì: non al successo, che non viene nemmeno tanto sottolineato quando Gesù richiama Lazzaro alla vita (vv. 43-44), ma piuttosto al suo pianto.

4. Appuntamento alla tomba

L’appuntamento è alla tomba di Lazzaro per tutti. Al luogo dove non ci resta che piangere, come farà Maria (Gv 20,11).
Ecco dove Gesù li vuole condurre e non per finta: il suo dolore per la morte dell’amico è autentico, come è autentico il dolore vissuto sulla croce. Gesù, vero uomo e vero Dio, non ha vissuto con divino distacco il dramma della croce, ben sapendo che sarebbe poi risorto… No! Gesù ha vissuto davvero il dramma del fallimento della sua missione, dell’abbandono degli amici, del misconoscimento delle autorità religiose del suo tempo, dell’umiliazione dell’ingiusto processo, del dolore del patibolo della croce, dell’angoscia nell’agonia. Nulla della sofferenza della morte gli è stato risparmiato, perché “pur essendo di natura divina… spogliò se stesso assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini” (Fil 2, 6ss). Nessuno è più solo in quell’ora: anche se nessuna mano amica può rimanere accanto, non c’è covid-19 che possa separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù.
Ed è a questa tomba che Gesù ci vuole condurre.
A questa tomba perché la tomba di Lazzaro, è la sua. Da quella fa uscire Lazzaro con la sua solenne chiamata, in quella entrerà, come fanno ben comprendere i versetti successivi che concludono il racconto (vv. 46-57, omessi dal testo liturgico di domenica). Gesù chiama Lazzaro fuori dalla tomba e sceglie di entrarvi al suo posto.
Non va tutto bene, quando si arriva alla tomba. Non ce l’abbiamo fatta: lo dicono le telefonate affrante di medici e infermieri che dalla terapia intensiva comunicano il bollettino serale a famiglie mai viste, mai incontrate… Per questo gli hashtag #andratuttobene o #celafaremo possono risultare addirittura offensivi per le famiglie che stanno vivendo il lutto o vivono l’angoscia di una persona in grave condizione e isolata da giorni… rischiano di diventare la ripetizione di una bugia che non ci aiuta a rimanere nella verità di quanto stiamo vivendo e a celebrarlo per viverlo, per attraversarlo e trovare una speranza più autentica.
Gesù con questo racconto non ce lo permette: ci porta alla tomba e ci fa vivere il suo pianto, che è il nostro.

5. La grazia di “morire con”

In questo tempo nel quale si muore soli, si viene “portati via in fretta”, senza nemmeno un saluto dei familiari e della comunità, il Vangelo della “resurrezione” di Lazzaro è il Vangelo dell’amore più forte della morte, dell’amicizia di Dio che non viene smentita.
Non il ritardo incomprensibile, non il dolore per il distacco, non la pietra davanti alla tomba, nemmeno la fede perfetta ma incerta di Marta o il contemporaneo “rimprovero” delle sorelle (“se tu fossi stato qui” v. 21 e v. 32), non il convenzionale giudizio di tutti i presenti…: nulla interrompe l’accompagnamento di Gesù, il percorso che lui ci invita a fare a causa del suo amore “serio” per noi. Un amore che non promette cose facili (“andratuttobene”), ma che ci conduce all’incontro dove Lui non si sottrarrà mai alla relazione.
Ci conduce al suo pianto per farci conoscere che il suo amore è vero, intenso, sincero: è la sua rabbia contro la morte che lo porterà a donare la sua vita per vincere la nostra morte e schiacciarla con le sue stesse armi.
Ci conduce alla sua tomba, dove lui è morto per noi, perché solo “morendo con” si “vive con”. Il problema infatti non è vivere o morire, ma come vivere e come morire. C’è un morire che è salvezza e c’è un vivere che non è vivere.
Gesù ci ha insegnato a vivere e ci ha insegnato a morire nella libertà e per amore. Come lui è morto liberamente e per amore. Allora non si ha più paura, allora non si è più soli. Allora non si vive più schiacciati, ma liberati, come quel parroco che – avendo ricevuto in dono dai suoi parrocchiani un respiratore per sé – lo ha donato per qualcun ben più giovane di lui. La sua morte è vita e non è la tragica fine insensata che tutti temiamo.
“Andiamo anche noi a morire con lui”: se andiamo con lui non avremo paura.

don Ivo

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