Ci sono, nel Vangelo, anche parole fastidiose.

Parole alle quali preferiamo non accordare troppo peso, parole spigolose che tentiamo di “arrotondare”, dandocene una spiegazione che le addomestichi e le adatti al nostro consueto modo di pensare, liberandoci dall’irritazione che possono creare in noi.

Tra queste parole forse per tanti c’è quella dei “servi inutili”.

Ma la vita, non solo con la sua durezza, ma ancor più con la sua straordinaria ampiezza di possibilità e di esperienze, è in grado di dare improvvisamente nuova evidenza a ciò che era per noi insignificante, a ciò che avevamo archiviato come superfluo per il nostro percorso quotidiano. L’epidemia che ci spaventa non riguarda più soltanto una lontana città cinese o le nostre Wuhan padane (Codogno e Vo’ Euganeo), ma, dopo essersi ampiamente diffusa in Italia, si sta “meritando” sul campo il tragico nome di pandemia, suonando la campanella anche per quei governanti che guardavano incuranti le sorti del nostro Paese: ebbene proprio lei si assume anche questa la responsabilità di dare spessore ad una parola di Gesù un po’ troppo bistrattata.

Entrare nella propria chiesa completamente vuota, nell’ora in cui di solito era gremita di persone che la animavano, ciascuno a modo proprio, è come sentirsi immediatamente spogliati, in una rigida giornata invernale, di tutti i propri abiti.

C’è poco da riscaldarsi davanti alla fiamma che illumina il tabernacolo: la consueta luce calda che lo abbraccia sembra anche lei stessa più tenue, malaticcia: circondata da un silenzio che non è caldo di intimità e di desiderio, ma vuoto e cupo, un po’ spettrale, per l’attesa di qualcuno che non verrà.

La presenza un po’ disordinata e vivace dei bambini, il calore delle famiglie che cercano posto accanto ad altre famiglie conosciute, lo svago degli anziani che si scambiano finalmente due parole, le precisazioni dei membri della commissione liturgica (manca sempre qualcosa all’ultimo minuto…), le immancabili concitate puntualizzazioni del coro su voci e strumenti, la tensione del parroco che pretende che tutto vada per il meglio, il vociare dei chierichetti… tutto è improvvisamente cancellato, “e tra di noi nessuno sa fino a quando” (Sal 74,9).

Le parole del profeta Daniele sono attuali anche per noi e non solo per il popolo in esilio a Babilonia: “Ora, Signore, siamo diventati più piccoli di qualunque altra nazione… siamo umiliati su tutta la terra (…). Ora non abbiamo più né capo, né profeta, né olocausto, né sacrificio, né oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovare misericordia” (Dan 3, 37-38).

È vero che abbiamo vissuto anche il terremoto nel 2012 e – in quella occasione – ci era venuto meno il luogo: è stato difficile, ma oggi quanto lo è di più? 

Mentre la domenica mattina mi aggiro per la chiesa vuota mi chiedo perché sono qui.

Perché non posso farne a meno, dopo anni e anni di reiterazione di questo rito che ha dato forma a tutte le mie domeniche?

Per abitudine e per affetto verso il luogo, il rito, la comunità che porto soltanto nel cuore, o forse per rappresentare tutti gli assenti, giusto perché è domenica?

Per quel senso di responsabilità che porta comunque a presidiare un territorio lasciato vuoto da una comunità sbriciolata dal virus?

Forse sono qui, mi dico nel tentativo di riordinare la mente e il cuore confusi, per “farmi del male”: sono qui a respirare il vuoto e per evitare di sottrarmi alla sentenza che mi dichiara “servo inutile”, ruolo non indispensabile, servizio non essenziale.

Noi preti stiamo vivendo con ansia questa improvvisa spogliazione.

Con ansia e a volte con quegli atteggiamenti isterici che si attivano quando ci si ritrova svuotati, ridimensionati, demansionati, si potrebbe dire. Quegli atteggiamenti che scattano come risposta non sempre composta e condivisibile quando ci si scopre “inutili”, privi dell’esercizio di quelle attività che danno valore al proprio tempo, risposta alla propria ricerca di senso. Allora scattano le iniziative più bizzarre: dire la messa sul tetto della chiesa perché il popolo partecipi dalle finestre di casa, portare in giro la statua della Vergine per vie deserte gridando preghiere affinché entrino per le finestre chiuse. E poi le messe in streaming: comprensibile tentativo di entrare nelle case, ma forse anche desiderio di non perdere il proprio ruolo, la propria centralità, di non essere improvvisamente i meno rilevanti tra tutti gli operatori sul territorio.

Ma quello su cui voglio riflettere non è sulla marginalità del presbitero e del suo servizio in questa brutta avventura. So, del resto, quanti cercano una sua parola almeno al telefono, quanti attendono l’omelia inviata via mail, quanti attraverso il sito lo raggiungono e provano a rimanere connessi alla vita della comunità che egli in ogni modo continua ad animare e “radunare”.

Voglio riflettere, piuttosto, sulla nostra comune vocazione e non solo sul ruolo del prete, defraudato delle sue azioni ministeriali. Perché non si tratta solo del fatto che il prete non ha quasi più la possibilità di “fare il prete”, ma anche del fatto che a noi cristiani praticanti, la parrocchia e la comunità che in essa si ritrova, appare come “inutile”, “non essenziale”.

Sì, siamo servi inutili. Mentre utili, utilissimi , sono i medici e gli infermieri. Utili sono coloro che garantiscono i servizi essenziali e rischiano pertanto quotidianamente: tra essi le cassiere dei supermercati, spesso guardate con una certa sufficienza, oggi coraggiose in prima linea ed esposte al rischio. Utili sono i tanti che consentono ad una società, improvvisamente paralizzata e spaventata, di non morire del tutto, di salvare se stessa almeno nel chiuso delle proprie case: utili proprio coloro che facciamo faticare di più a causa della nostra indisciplina.

Loro utili e noi inutili. Loro essenziali a costo della vita, noi “servizi non essenziali”.

Le parrocchie chiuse, gli oratori deserti, le chiese silenziose e vuote. L’interruzione sine die del catechismo e della celebrazione dei sacramenti. La visita alle famiglie negata. Il servizio della Caritas ridotto all’osso, gli incontri di formazione per i giovani, ben che vada, divenuti come lezioni on-line, la stessa celebrazione del rito cristiano del congedo nella speranza di una vita piena risolto in una asciutta fugace benedizione.

Tutte cose inutili. Non necessarie. Procrastinabili senza danno. Facilmente sospendibili in attesa di tempi migliori. Ultime nell’agenda delle preoccupazioni di tanti.

A che cosa “serve” quindi la vita di una comunità parrocchiale? A cosa tutto il nostro fare, così affannoso fino al 24 febbraio e che ha stentato a fermarsi all’inizio della quaresima?

Questo dramma sanitario sta provando a farci capire un aspetto essenziale del cristianesimo, un suo nocciolo profondo, perduto a causa della nostra logica efficientistica e della nostra supponenza di esser sempre al centro, come se fossimo nella “beata” condizione di cristianità.

L’esperienza cristiana non è nell’ordine dell’utile, ma dell’inutile, del non necessario.

Si vive la vita cristiana e si partecipa alla preghiera, alla fraternità e al servizio di una comunità cristiana non perché “serva” a qualcosa, ma perché si ama vivere qualcosa di gratuito, di libero, di “inutile”.

Convinti che ciò che nutre, ciò che anima la speranza, ciò che motiva la gioia di vivere, è questo inutile, più decisivo e appassionante di qualsiasi cosa utile e necessaria. Anzi, ogni cosa necessaria assume spessore e vita perché ha dietro una motivazione che si pone sul piano della passione, dell’amore, della fiducia, della speranza…, cioè dell’inutile.

Così noi cristiani di parrocchia, noi habitué della messa domenicale, noi parrocchiani doc, siamo invitati a riscoprire un significato che ci è stato nascosto da lungo tempo e che l’annuncio di un vangelo della libertà e della grazia fatica a scardinare.

Abbiamo alle spalle decenni e decenni di cultura religiosa del precetto domenicale: qualcuno si confesserà perfino di aver mancato alla messa nei mesi del Coronavirus, giusto per liberarsi la “coscienza” di un peso che comunque rimane… e lo testimonia il fatto che c’è ancora in giro chi vada in cerca di qualche improbabile messa o almeno di ricevere l’ostia.

Abbiamo ancora dentro le profonde impronte lasciate da una catechesi del dovere (ciò che si deve credere: l’insegnamento della Chiesa; ciò che si deve fare: obbedire ai comandamenti; ciò che si deve ricevere: i sacramenti) per non andare all’inferno.

Siamo ancora figli di una forma di cristianesimo inteso come dovere da assolvere: l’immagine della raccolta “Punti Paradiso” sembrerà stupidamente caricaturale, ma la rappresentazione di un Dio che calcola e tiene conto delle performances, è dura a morire.

Questo tempo minacciato dal pericolosissimo e terribile virus ci aiuta, a caro prezzo e con la fatica propria di ogni conversione, a renderci conto che siamo servi inutili.

Servi, sì, se lo vogliamo. Se lo facciamo volentieri. Se amiamo esserlo.

Ma inutili. Il nostro servizio non è necessario.

Senza di noi le cose vanno avanti lo stesso.

Ciò che siamo e facciamo non serve per meritarci qualcosa.

L’esperienza cristiana ha qualcosa da offrire nell’ordine del dono e della gratuità, non nell’ordine del necessario e del meritorio.

Se siamo comunità cristiana, se siamo parrocchia, lo siamo solo per desiderio e per passione.

Quello che facciamo lo facciamo nella gratuità e liberamente.

La nostra vita comunitaria che si riconosce soprattutto nel raccogliersi per celebrare l’eucarestia “non serve a niente”: viene scelta solo per vivere un’esperienza di gratuità, di fraternità, di amore, di libertà. 

Per tutto il resto c’è chi è molto più utile di noi. E ai quali dobbiamo molta gratitudine.

A noi comunità cristiana rimane solo il compito di offrire uno spazio di libertà, di respiro, di incontro gratuito e gioioso. Un compito non necessario e per questo essenziale.

 

don Ivo

Categories: Approfondimenti