Un seme di Vangelo (Gv 9, 1-41)

Il male è un enigma.

Un mistero davanti al quale da sempre l’umanità ha cercato di indagare, alla ricerca di spiegazioni. E in questi giorni, mano a mano che il male – subdolo, misterioso, imprendibile – continua la sua corsa, molti cercano la propria spiegazione.

È difficile accettare che l’enigma rimanga irrisolto: l’impotenza difficile da accettare non è solo quella di non saperlo vincere, ma anche quella di non sapersi dare una spiegazione. Mentre invece – io ne sono profondamente convinto – non c’è una spiegazione per questo enigma. Per esso non c’è “spiegazione”, ma c’è solo una salvezza, promessa da Colui che è il Signore della vita e che regna al di sopra del male e lo detesta.

“Chi ha peccato, lui o i suoi genitori perché nascesse cieco?”.

Anche i discepoli, come tanti uomini religiosi, davanti al male cercano una spiegazione che abbia radice nel peccato. Se c’è un male, c’è un peccato che lo giustifica. E tutto questo significa – senza dirlo, per carità – che dietro al male c’è Dio che lo avrebbe “voluto”, se non altro “sopportato”, come inevitabile risposta ad un male che qualcuno avrebbe commesso.

Una larvata forma di bestemmia, una sinistra immagine di Dio, che in qualunque modo del male sarebbe responsabile, anche se solo come sua risposta, magari nemmeno desiderata ma necessaria, al male che noi avremmo commesso.

Ed ecco la prima cecità da cui Gesù, luce del mondo (v. 5), è venuto a liberarci: quella di chi, davanti al male, guarda al peccato invece che alla persona. Di coloro ai quali interessa la colpa e sempre la stanno a cercare, invece che cercare quale sia la via della guarigione. L’altro chi è? Un colpevole da accusare o un fratello da salvare?

E noi, uomini religiosi, che cosa ci chiediamo davanti alla pandemia che colpisce ciecamente e distrugge a grandi passi non solo la vita dei più fragili, ma anche l’economia, i legami sociali, la speranza delle famiglie, la coesione europea? Ci chiediamo “di chi sia la colpa” o da dove abbia origine questo male o, piuttosto, come cercare oggi il bene dell’altro, la sua vita e salvezza?

E davanti al male ciascuno attiva le sue strategie di difesa.

Anche noi, come la gente attorno al cieco nato, possiamo giudicare i fatti con superficialità. Magari leggendo ossessivamente i bollettini della “guerra” in corso, oppure informandoci, speriamo non con una specie di morbosa curiosità, sulle storie degli altri, le loro vite spezzate, le loro disgrazie… Le chiacchiere da bar, quelle in cui tutti noi sapremmo bene che cosa si dovrebbe fare oggi per uscire da questa situazione, non ci aiutano a riflettere e giudicare con una lettura più profonda il dramma che stiamo vivendo.

Possiamo, però, come i genitori di quell’uomo che era nato cieco, lavarcene le mani. È facile che la paura e la viltà si prendano possesso di noi. Allora rimanere a casa potrebbe non essere più un autentico gesto di responsabilità, ma un rimanere alla finestra, magari sentendoci al sicuro, mentre attendiamo lo scorrere degli eventi, come davanti ad uno schermo televisivo.

Ma la peggiore di tutte le difese è quella che potremmo apprendere dai farisei: preoccupati come sono di difendere se stessi, il proprio potere e la propria immagine, i farisei contestano la trasgressione della regola compiuta da Gesù (era un sabato quel giorno, v. 14) e piano piano iniziano a negare il fatto (non credettero di lui che fosse stato cieco e aveva recuperato la vita, v. 18). Insomma: pur di aver ragione decidono di modificare la realtà. Basta una parola di più o una parola di meno e tutto cambia: è poi così difficile farlo?

Mentre il processo si svolge apparentemente attorno al cieco che viene poi espulso dalla sinagoga (v. 34), ma è in realtà attorno a Gesù il colpevole di aver commesso di sabato il “delitto” di liberare una persona dal male (!), Gesù ribalta piano piano la scena: il processo è rivolto a chi non vuole venire alla luce, a chi non vuole riconoscere la luce del mondo.

Nella conclusione del racconto le parole di Gesù suonano come una sentenza, proprio dopo la domanda stessa dei farisei: “Siccome dite ‘Noi vediamo’ il vostro peccato rimane” (v. 41).

Sì, ecco il punto: è il torto di aver ragione, la questione!

I farisei dicono di vedere, di sapere, di conoscere: e pur di dar ragione a se stessi mettono sotto processo il cieco, negano la sua condizione di partenza, minacciano i genitori, considerano Gesù un peccatore e alla fine condannano colui che è stato guarito.

Essi hanno il torto di pretendere di vedere, di sapere: il torto di voler aver ragione.

“Io ho ragione”: ma quante volte nelle nostre discussioni, nei nostri litigi, nelle contrapposizioni partitiche, nei conflitti di relazione siamo arroccati su questa certezza. Se c’è il male la colpa è dell’altro, se c’è il male le spiegazioni sono sempre facili, a portata di mano, se c’è il male per paura e vigliaccheria noi ne prendiamo la distanza ritenendoci assolutamente innocenti. Ma davvero le cose stanno così?

Davanti al male della fuga di milioni di persone dalla fame e dalla guerra, davanti al male della pandemia… e davanti al male antico, quello che mi abita dentro e che chiamiamo peccato, so riconoscere di “non aver ragione” e di aver bisogno di salvezza attraverso un incontro con Gesù e un lungo itinerario di lotta, di solitudine, di verità?

Sono disponibile, in questa misteriosa quaresima, a fare questo lungo cammino di illuminazione?

don Ivo

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