Che vuol dire una Chiesa dal volto amazzonico? Vuol dire che si radica nelle sue tradizioni, nella sua cultura, che evangelizza nella propria lingua e approfondisce la dottrina della Chiesa. Questo significa anche che sono oggi gli stessi indigeni battezzati a chiedere come evangelizzare, annunciare la Buona Novella nel modo migliore”. A parlare con pacata saggezza è un sacerdote indio di etnia tuyuka. Justino Sarmento Rezende, sacerdote salesiano, segretario provinciale della provincia di São Domingos Sávio a Manaus in Brasile, l’unico indigeno ad essere stato inserito nel Consiglio di preparazione del Sinodo sull’Amazzonia e l’unico prete indio a prenderne oggi parte come esperto. Ma la sua storia è significativa di quanto la chiesa fatichi ancora a interiorizzare un metodo veramente evangelico: quando infatti nel 1976 nella sua diocesi venne istituito un Seminario, insieme ad altri cinque giovani indigeni andò a chiedere come si diventava sacerdoti. «La risposta che allora ottenemmo è stata: “No, essere prete non è per voi indiani! Andate a giocarChe vuol dire una Chiesa dal volto amazzonico? Vuol dire che si radica nelle sue tradizioni, nella sua cultura, che evangelizza nella propria lingua e approfondisce la dottrina della Chiesa. Questo significa anche che sono oggi gli stessi indigeni battezzati a chiedere come evangelizzare, annunciare la Buona Novella nel modo migliore”. A parlare con pacata saggezza è un sacerdote indio di etnia tuyuka. Justino Sarmento Rezende, sacerdote salesiano, segretario provinciale della provincia di São Domingos Sávio a Manaus in Brasile, l’unico indigeno ad essere stato inserito nel Consiglio di preparazione del Sinodo sull’Amazzonia e l’unico prete indio a prenderne oggi parte come esperto. Ma la sua storia è significativa di quanto la chiesa fatichi ancora a interiorizzare un metodo veramente evangelico: quando infatti nel 1976 nella sua diocesi venne istituito un Seminario, insieme ad altri cinque giovani indigeni andò a chiedere come si diventava sacerdoti. «La risposta che allora ottenemmo è stata: “No, essere prete non è per voi indiani! Andate a giocareChe vuol dire una Chiesa dal volto amazzonico? Vuol dire che si radica nelle sue tradizioni, nella sua cultura, che evangelizza nella propria lingua e approfondisce la dottrina della Chiesa. Questo significa anche che sono oggi gli stessi indigeni battezzati a chiedere come evangelizzare, annunciare la Buona Novella nel modo migliore”. A parlare con pacata saggezza è un sacerdote indio di etnia tuyuka. Justino Sarmento Rezende, sacerdote salesiano, segretario provinciale della provincia di São Domingos Sávio a Manaus in Brasile, l’unico indigeno ad essere stato inserito nel Consiglio di preparazione del Sinodo sull’Amazzonia e l’unico prete indio a prenderne oggi parte come esperto. Ma la sua storia è significativa di quanto la chiesa fatichi ancora a interiorizzare un metodo veramente evangelico: quando infatti nel 1976 nella sua diocesi venne istituito un Seminario, insieme ad altri cinque giovani indigeni andò a chiedere come si diventava sacerdoti. «La risposta che allora ottenemmo è stata: “No, essere prete non è per voi indiani! Andate a giocarChe vuol dire una Chiesa dal volto amazzonico? Vuol dire che si radica nelle sue tradizioni, nella sua cultura, che evangelizza nella propria lingua e approfondisce la dottrina della Chiesa. Questo significa anche che sono oggi gli stessi indigeni battezzati a chiedere come evangelizzare, annunciare la Buona Novella nel modo migliore”. A parlare con pacata saggezza è un sacerdote indio di etnia tuyuka. Justino Sarmento Rezende, sacerdote salesiano, segretario provinciale della provincia di São Domingos Sávio a Manaus in Brasile, l’unico indigeno ad essere stato inserito nel Consiglio di preparazione del Sinodo sull’Amazzonia e l’unico prete indio a prenderne oggi parte come esperto. Ma la sua storia è significativa di quanto la chiesa fatichi ancora a interiorizzare un metodo veramente evangelico: quando infatti nel 1976 nella sua diocesi venne istituito un Seminario, insieme ad altri cinque giovani indigeni andò a chiedere come si diventava sacerdoti. «La risposta che allora ottenemmo è stata: “No, essere prete non è per voi indiani! Andate a giocare!”.

Viene in mente, forse non a caso, il (probabilmente) primo celeberrimo “sinodo” della storia cristiana raccontato negli Atti (At 15), quando cioè Paolo si oppone agli Ebrei convertiti al cristianesimo che volevano imporre la circoncisione come viatico per la salvezza. Tale occasione fu forse provocata dall’altrettanto celeberrimo “incidente di Antiochia” quando sempre Paolo rimprovera Pietro perché quest’ultimo tendeva a stare solo con i giudei convertiti (e non dimentichiamoci che Pietro…era il papa di allora!!!).

Insomma, la chiesa è sempre stata chiamata a vivere un dinamismo nelle questioni interne al fine di discernere il modo migliore per evangelizzazione senza arroccarsi su sicurezze apparentemente granitiche. Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho in Brasile, ricorda che “ogni processo di inculturazione rispetta il processo da entrambi le parti: non si tratta di imporre una cultura dall’alto, ma di preservare i semi presenti in ogni cultura. Nessuna cultura è perfetta, tutti noi abbiamo bisogno di adeguarci per diventare una nuova creatura: l’annuncio del Vangelo è un annuncio di vita nuova, senza però abbandonare le proprie tradizioni. Si tratta di processi lenti, che non nascono da un momento all’altro ed è molto importante che i missionari e i laici lavorino insieme, per il miglior lavoro possibile a favore del popolo amazzonico”.Il sinodo quindi procede su questa strada per affrontare le grandi tematiche ecclesiali di cui abbiamo parlato le settimane scorse: viri probati, valorizzazione delle donne nella Chiesa, questione ecologica; tuttavia questa settimana sui quotidiani ha fatto molto scalpore il furto delle statuette “pachamama” (madre terra) da una chiesa di Roma, subito battezzato come gesto di integralisti cattolici da arte della stampa, ma in realtà non rivendicato da nessuno. Le statuette rappresentano una donna incinta e prosperosa, che alcuni hanno identificato con una rappresentazione sacrilega della Madonna, ma che in realtà (e per questo basta fare memoria delle prime lezioni di storia a scuola) rimanda al culto della madre-terra quando, nelle ataviche civiltà del bacino del Mediterraneo come di tutto il mondo, era vigente il culto della dea-madre, simbolo di fertilità e quindi di vita, testimoniato da numerosi reperti (basti pensare alla europeissima austriaca Venere di Willendorf): insomma, chiunque abbia fatto tale gesto (buttando tra l’altro le statue nel Tevere), non solo dimostra di essere ignorante in storia, ma di non aver per nulla compreso lo spirito evangelico del sinodo, condannando prontamente un simbolo (dal pulpito della propria presunta superiorità culturale e “ragione”) che nulla ha di malizioso o di offensivo.

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