Negli ultimi 10 anni si è parlato molto della nuova formula del Padre Nostro. Da quando è uscita la nuova traduzione della Bibbia curata dalla CEI (Conferenza Episcopale Italiana), in cui la preghiera di Gesù nella versione di Matteo ha subìto qualche piccolo cambiamento, alcune parrocchie si sono attrezzate per imparare una versione rinnovata, altre hanno atteso che tali modifiche venissero recepite in una nuova edizione del messale che – così si pensava – sarebbe uscita di lì a poco. Qualcuno dunque ha rinnovato (ad esempio S. Pio), qualcuno invece ha aspettato (ad esempio S. Lazzaro), seguendo due percorsi diversi ed entrambi legittimi.

Oggi tutta la Chiesa italiana è chiamata a fare un piccolo passo di cambiamento ed è importante cogliere bene il senso di questo passo e la possibilità che dischiude per il nostro cammino di fede. Dal punto di vista del contenuto, sappiamo bene che non è il Signore a ‘indurre in tentazione’, nel senso che tante volte noi diamo al termine. Il Signore non vuole farci cadere nel peccato e non gode se noi inciampiamo. Il ‘non indurre in tentazione’ deve essere letto piuttosto nell’ottica biblica della tentazione come manifestazione di ciò che il cuore umano contiene. ‘Tentare’ è aprire il cuore da una parte all’altra per vedere cosa c’è dentro; in questo senso è un’azione spirituale e non sorprende che, subito dopo il battesimo nel Giordano, Gesù venga buttato nel deserto dallo Spirito per essere tentato dal diavolo. La prima azione spirituale della sua vita pubblica è la familiarità con il proprio cuore e con le voci in esso contenute; in tal senso, possiamo dire che ‘Dio ci porta nella tentazione’. Il nostro modo di intendere però è ben diverso: per noi la tentazione coincide con il peccato, il male, la rovina; è quella vocina che sussurra al nostro orecchio che possiamo fare senza Dio, con tanto di diavoletto con forcone e coda … intesa così, la tentazione non può certo essere opera di Dio! Ecco allora che la nuova traduzione ‘non abbandonarci alla tentazione’, seppur meno letterale, ci restituisce un senso più comprensibile della preghiera: non chiediamo di non avere tentazioni, perché la tentazione è anche il segno della nostra libertà; chiediamo però di non rimanere soli quando ci troviamo nella lotta, perché altrimenti non potremmo che soccombere.

Questo è il piano dei contenuti. C’è però un altro piano, quello della nostra abitudine, e anche qui credo che il cambiamento sia per noi un’occasione di crescita. ‘Toccatemi tutto, ma non il Padre Nostro!’, potremmo dire parafrasando la famosa pubblicità dell’orologio (di cui non faccio il nome per evitare pubblicità occulte …). Il Padre Nostro è forse la preghiera che più spesso recitiamo e alla quale siamo più legati, la preghiera che i nostri genitori ci hanno insegnato da bambini, la preghiera che anche chi non riesce a seguire la messa recita sempre volentieri, la preghiera che ci fa sentire fratelli quando ci prendiamo per mano … Il Padre Nostro non è solo una preghiera bellissima e preziosa, è per noi anche un pezzo di vita, fa parte della nostra identità e tocca i nostri affetti. Per tutti questi motivi, pensare di cambiarne un po’ la forma è difficile e allo stesso tempo necessario. Sì, perché ormai noi non pensiamo più al significato di ciò che diciamo, e spesso le preghiere escono dal nostro cuore in modo un po’ automatico, toccando gli affetti ma forse poco la testa. Io credo che se davvero avessimo il Padre Nostro come preghiera centrale, la nostra vita e il nostro agire sarebbero molto diversi: una preghiera che è prima di tutto per il mondo, non per i nostri bisogni; una preghiera che chiede al Padre di perdonare i nostri peccati nella misura in cui anche noi perdoniamo a chi ci ha fatto del male; una preghiera che si accontenta del pane che serve per arrivare a domani … quanto siamo lontani da tutto ciò! Le nostre preghiere sono spesso un mix di domande per noi e di paura per il tempo in cui viviamo; non ci danno la forza di perdonare e scambiano la fede con l’insistenza nella ripetizione di formule che non si traducono in una pratica di vita virtuosa … Sto esagerando, ma credo che tutti noi, se siamo onesti, sentiamo forte lo scarto tra la preghiera di Gesù e la nostra serie di recite di ‘Padri Nostri’ – o affini – che hanno poca incidenza sulla nostra capacità di vedere l’esigenza del fratello, di perdonare, di lavorare con fiducia per la venuta del Regno. Cambiare un po’ la formula allora ci fa bene: ci aiuta a pensare di più a ciò che diciamo, ci toglie per un attimo dalla routine della vita di preghiera, ci riconsegna – se vogliamo – l’esigenza di fare sul serio nelle parole che diciamo al Signore.

Buon Padre Nostro 2.0! Fino ai prossimi cambiamenti …

Don Raffaele

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