Ci eravamo lasciati 2 settimane fa con la prima parte del racconto dell’incontro sul Congo e la sua situazione avvenuto il 4 maggio nella nostra parrocchia. Don Germain Nzinga ci aveva aiutato in modo lucido e puntuale ad addentrarci nella storia di questo paese per vedere come oggi sia in atto una guerra – che di civile ha ben poco – che si basa su tre parole d’ordine: sterminio, marginalizzazione e balcanizzazione.

In questa situazione apparentemente disperata – ricordiamo che sono 8 milioni i morti stimati dall’inizio della guerra nel 1989 – c’è chi trova la forza per cercare di costruire una società più giusta che possa vivere in pace a partire proprio dalle donne. È ciò che ci ha raccontato Mathilde Muhindo direttrice del Centro Olame di Bukavu, capitale della Provincia del Sud Kivu ed ex deputata del parlamento della Repubblica Democratica del Congo.

In Congo le donne sono più del 52% della popolazione. Il ruolo della donna è fondamentale in un paese dove gli uomini o combattono o lavorano in miniera. La donna si occupa della vita sociale, dell’educazione, della sanità, dei funerali persino dei prigionieri che mangiano perché le donne danno loro da mangiare. La tradizione, cavalcata dalla dittatura di Mobutu – terminata solo nel 1997 – non ha ritenuto necessario che la donna potesse studiare per questo motivo oltre il 67% delle donne sono analfabete. Dopo la dittatura, durata 32 anni, è iniziata un’interminabile guerra in cui la parte femminile di questa società ha subito e subisce continue barbarie. Oltre 400.000 donne sono state violentate secondo le fonti ufficiali, ma sono stime ottimistiche e probabilmente il numero reale è superiore al doppio di questa stima. Lo stupro è stato usato come vera e propria arma di guerra dai militari congolesi e stranieri: come abbiamo già ricordato toccare la donna significa toccare la vita, sopprimere le donne è liberarsi della vita.

Anche nelle zone delle miniere le donne sono vittime. Quelle che lavorano i minerali contraggono spesso delle malattie, come la tubercolosi, e il loro lavoro è sottopagato quando va bene. Alle altre non va molto meglio perché spesso per sopravvivere sono costrette a prostituirsi .

Ma in tutta questa violenza e questa barbarie le donne non sono rimaste solo vittime, hanno saputo reagire, hanno reclamato i loro diritti, vogliono capire che ruolo possono avere per costruire il futuro del loro paese. Il lavoro del Centro Olame è anche questo: sensibilizzare e formare le donne, indirizzarle verso attività che generano reddito, incoraggiarle ad entrare in ruoli politici attivi a tutti i livelli. E questo è possibile perché le donne a differenza degli uomini – impegnati a spartirsi il potere per lo più con le armi e a gestire o svendere le immense ricchezze del sottosuolo del Congo – “pensano all’avvenire dei loro bambini e della società, al bene degli altri”.

Chiaramente l’attuale situazione del Congo è anche un problema politico. Nel 2006 è stato eletto Bemba, oggi in prigione. Nel 2011 è stato imposto come presidente Kabila, di origine rwandese, il quale non ha avuto né avrà pietà del popolo congolese. L’anno prossimo dovrebbero svolgersi le elezioni nazionali, ma più di una voce si leva contro questa eventualità. E ci sono più di una ragione che lascia perplessi sulla regolarità delle possibili elezioni in queste condizioni. È come se l’Italia o la Francia durante l’occupazione tedesca durante la Seconda Guerra Mondiale avessero indetto delle elezioni, dice don Germain: a cosa sarebbe servito se non a confermare in un modo o nell’altro il governo occupante? Inoltre non vi è mai stato un censimento, non vi sono carte d’identità, dunque non si può sapere quante sono le persone con il diritto di votare. Insomma se non sono stabilite le regole non serve andare alle elezioni. “Niente senza la donna” è la campagna elettorale che Mathilde con il Centro Olame ha lanciato per le elezioni del 2016 per dare spazio alle donne in politica, ma la possibilità dell’astensione contro questa mancanza di regole è concreta.

Qualcosa si sta muovendo anche in occidente, come ci racconta Donata Frigerio. L’anno scorso è iniziata una campagna “Minerali clandestini” (più propriamente “Minerali da conflitto”). Il problema nasce dal fatto che, anche se Rwanda, Burundi e Uganda non producono minerali, ne esportano grandi quantità (v. cartina). Evidentemente, approfittando della situazione di caos nel Congo, ne esportano in modo illegale dal Congo stesso e li inviano verso l’Est asiatico dove vengono lavorati per le maggiori industri di IT del mondo (Sony, Nokia, Apple, Philips, Samsung, Microsoft, Toshiba, Lenovo, Acer per citarne solo alcune). Il Parlamento europeo ha scritto una proposta di legge, copiandola in parte da una analoga negli USA, derivante dalla pressione dei consumatori e dell’opinione pubblica americana. La vendita dei minerali in Congo fa sì che si continuino a vendere e comperare armi e si alimenti la guerra. Gli USA avevano legiferato affinché le aziende che in qualche modo traggono profitto da tungsteno, oro coltan e altri elementi dovessero certificare che i minerali utilizzati non derivassero da zone africane in guerra. L’Unione Europea ha fatto una proposta di legge che vuole estendere il controllo anche a minerali che provengono da aree diverse dalla Regione dei Grandi Laghi, ad esempio Birmania, Colombia, etc. La proposta di legge sembra buona anche se ci sono ampi margini di possibili miglioramenti. Da più parti viene la richiesta di rendere la certificazione obbligatoria e non solo volontaria e di introdurla per tutta la filiera dal produttore delle materie prime al consumatore e non solo per gli importatori come prevederebbe l’attuale disegno di legge.

In Kivu vi sono esperimenti di tracciabilità. È una cosa molto complessa, ma almeno è un tentativo di equità. Dal momento che tutti usiamo i cellulari e ne vogliamo di nuovi, dobbiamo sentirci coinvolti da questi discorsi. Nei telefoni sono contenuti i minerali congolesi. Lo sfruttamento intensivo, con aumenti enormi dei prezzi del coltan, coincidono ad esempio con l’uscita sul mercato delle nuove Play Station. Ciò causa ulteriori pressioni da parte dei miliziani e altra sofferenza.

Esistono anche realtà che cercano di produrre secondo le regole del fair-trade. Dal punto di vista dei cellulari l’esempio più pulito di questo tipo di prodotti è dato dal Fairphone (www.fairphone.com) anche se le possibilità di miglioramento ci sono eccome.

 

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