Come si accede alla fede cristiana? Come si diventa credenti? Da quali frutti si riconosce la  presenza della fede? Come si annuncia la fede?  Queste quattro domande alquanto impegnative  sono state poste da fratel Enzo Biemmi, religioso, presidente dei catecheti europei ed esperto  di catechesi, Martedi’ 7 maggio presso il seminario della diocesi alla chiesa modenese tutta  rappresentata da sacerdoti, religiosi, seminaristi, ma anche da molti laici impegnati proprio  in questo ambito. L’incontro, parte di una serie di conferenze organizzate dalla commissione  diocesana per l’ecumenismo sulla Trasmissione della fede nella società di oggi (in senso lato:  infatti, precedentemente sono intervenuti il rabbino Goldstein, il patriarca ortodosso Cassinasco, e,  il 15 maggio, il prof. valdese Benedetto) ha appunto affrontato tale tematica che può essere definita,  forse in modo un po’ banale, ma incisivo, il “fare catechismo” oggi. Tematica alquanto spinosa sia  perché non può essere delimitata ai soli fanciulli e/o giovani come indirettamente e inconsciamente  si è per molto tempo dato per scontato, sia perché i mutamenti culturali odierni ci costringono a  mutare i parametri  tradizionali ai quali siamo avvezzi. Alle domande poste sopra, infatti, non si può  più rispondere in modo intellettualistico, basandosi cioè su conoscenze catechistiche da tramandare  secondo una modalità scolastica. Ciò su cui Biemmi ha insistito infatti è la dimensione fortemente  relazionale della fede: oggi la fede può essere solo trasmessa se narrata attraverso esperienze di  vita significative che dicono la propria fede. Fino a pochi decenni fa la fede era sostanzialmente  trasmessa dalla famiglia che, attraverso figure stabili e rassicuranti (la nonna o anche la mamma  stessa) tramandava in modo semplice, ma efficace le verità fondamentali del cristianesimo avviando  quindi una “forma mentis” che avrebbe poi accolto la dimensione più prettamente conoscitiva e  intellettiva della fede cristiana stessa (la “dottrina”, per intenderci); ora il panorama è totalmente  mutato. La famiglia è spiazzata continuamente dal lavoro, dalle cose da fare e, non ultimo, dalle  preoccupazioni economiche; la scuola ha raggiunto una assoluta laicità, arricchita poi dalla  presenza sempre più massiccia di etnie (e quindi di culture e religioni) differenti. La stessa società  contemporanea (liquida, direbbe qualcuno) non è più un tutt’uno con i simboli e i valori cristiani.  Di fronte a questo quadro, che potrebbe portare al pessimismo e al lamento, Biemmi ha al contrario  invitato ad un sereno ottimismo. Mai come ora siamo chiamati attraverso la nostra testimonianza,  che non può mai essere aggressiva, ad innescare dei percorsi di fede più che ad imporli. Mai come  ora siamo chiamati a permettere che tali percorsi prendano una loro strada, magari completamente  differente dai nostri cliché, più che a voler riprodurre le nostre modalità di adesione alla fede.  Mai come ora siamo chiamati a identificare la fede con  ciò che è profondamente umano più che a  delimitare ciò che è cristiano da ciò che non lo è. Mai come ora siamo chiamati a lasciare che sia lo  Spirito a convertire i cuori più che a pensare di essere noi gli artefici della salvezza. E’ un cammino  sicuramente nuovo e impegnativo, ma altrettanto affascinante e coinvolgente perché siamo chiamati  non a vivere nostalgicamente il passato rimpiangendo le “cose di prima” (e indirettamente a farlo  pesare a chi timidamente si avvicina alla fede), ma a fare come Giacobbe che in un pascolo deserto  dice “Dio era qui e non me ne ero accorto”! (Genesi, 28, 16)

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