L’8 dicembre 1965 il Concilio Vaticano II si è finalmente aperto: questo è quello che abbiamo imparato nell’incontro con don Roberto Repole. Forse qualcuno potrebbe obiettare che quella non è la data dall’apertura, ma della chiusura, eppure è proprio così: quel giorno del 1965 il Concilio si è aperto, perché è uscito dalle mura del Vaticano per dare inizio alla recezione della Chiesa. E allora noi, che ci collochiamo a 50 anni da questi eventi, lo possiamo sentire non come una cosa del passato – o al limite del presente – ma come una realtà del futuro, una sfida che ci sta ancora davanti e ci chiama ad uno stile di ‘aggiornamento’, per usare le parole di Giovanni XXIII.

È proprio alla comprensione di questo stile che ci ha guidato don Roberto, mostrandoci 4 modalità nuove del Concilio che sono stati degli ‘schiaffi’ perla Chiesadi 50 anni fa e che lo sono ancora per noi oggi.

In primo luogo il tenore dei testi conciliari. Perché, a differenza dei Concili precedenti, non si è voluto dire con chiarezza cosa fare e cosa evitare? Perché non ci sono state ‘definizioni’ o ‘anatemi’ e si è voluto ricorrere ad un linguaggio ‘pastorale’ che suona un po’ da ‘serie B’? Queste domande, che hanno percorso questi 50 anni quasi a mo’ di accusa, come se si trattasse di un Concilio in fondo poco significativo, ne svelano proprio la ricchezza: il Vaticano II, infatti, va molto oltre gli ultimi 4 secoli, e riprende tutta la tradizione bimillenaria della Chiesa fino alle sue sorgenti; sono i Padri – ma anchela Scrittura – ad avere un linguaggio spesso pastorale! Ma questo linguaggio dice anche la complessità dei problemi – non trattabili con un semplice lecito/non lecito -, come il fatto che i destinatari non siano solamente i cristiani, ma tutti gli uomini di buona volontà.

È, dunque, un Concilio che fa un passo avanti, e che vuole creare un ponte con una modernità riconciliata: Gaudium et Spes 37 afferma con chiarezza l’autonomia delle realtà terrene per volontà del Creatore. Siamo dunque cittadini di un mondo che ha le sue dinamiche, e al cui interno costituiamo, come Chiesa, il grande sacramento della salvezza. Ciò significa chela Chiesa non è tutto, ma è una comunità di uomini che porta il destino di tutta quanta l’umanità. Questo va di pari passo con una Chiesa che nel Concilio si scopre mondiale: non ci sono soltanto gli europei, ma anche quelli delle altre parti del mondo, dove è normale che non tutti siano cristiani. A noi spetta, dunque, a 50 anni dal Concilio, il compito di mostrare che la nostra fede e la nostra appartenenza ecclesiale sono credibili in un mondo secolarizzato come quello di oggi.

Quest’ultimo aspetto ci porta alla terza novità: l’irruzione dell’altro. Che sia il cristiano di altre confessioni, o il non credente, o più semplicemente i media, mai usati in precedenza come in questo caso, sta di fatto chela Chiesa del Concilio è chiamata a confrontarsi un’alterità, una diversità. Il punto di contatto è la fede che la presenza di Cristo, nello Spirito, non è esclusiva dei cristiani, perché in qualunque condizione uno si trovi, c’è la possibilità di incontrare il Signore.

Infine, si è trattato di un Concilio pastorale e di ‘aggiornamento’. Giovanni XXIII aveva usato proprio questa categoria per dire la necessità di trovare un linguaggio nuovo, che rimanesse fedele alla tradizione della Chiesa sapendola tradurre in un modo comprensibile all’uomo contemporaneo. Il papa buono aveva capito che la forma non è secondaria rispetto al contenuto, e proprio su questa forma adatta ai tempi ha impostato la sua proposta. Essere fedeli a questa intuizione per noi, oggi, significa comprendere che l’elaborazione della fede è un processo interpretativo continuo, tanto che anche fissarsi sulle cose dette 50 anni fa sarebbe un tragico tradimento dell’ispirazione del Concilio, perché “la normatività del Concilio non è nella lettera del testo, ma nella fedeltà all’ispirazione che – e sono le ultime parole di Repole – porta fino al punto in cui le formulazioni risultano tali che si coltiva l’attesa di un nuovo Concilio!”.

La porta, dunque, è aperta, e sta a noi come Chiesa percorrerla.

Don Raffaele

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