Lunedì 3 settembre si è svolto il primo consiglio pastorale parrocchiale di quest’anno di cui qui non si vuole proporre un resoconto dettagliato (per questo si può consultare il verbale) bensì cercare di spiegare quanto è emerso ed enucleare alcuni importanti concetti che il consiglio pastorale e quello degli affari economici vogliono trasmettere alla comunità. I due principali argomenti trattati (il percorso pastorale di quest’anno incentrato sul 50esimo del Concilio Vaticano II e l’agibilità della chiesa) apparentemente lontani in realtà sono fortemente collegati tra loro. Il Concilio (vi invitiamo a prendere nota degli appuntamenti di riflessione proposti) ha rappresentato un momento fondamentale della storia recente della Chiesa in quanto non solo ha permesso un confronto aperto e sincero tra tutte le sue componenti, ma ha anche rinnovato l’immagine della Chiesa, più aperta al mondo e non semplicemente giudice di esso. Il Concilio insegna che tutti noi siamo Chiesa e che essa è formata da tutti i battezzati. Recentemente qualche nostalgico detrattore ha incolpato il Vaticano II di eccessiva apertura e ciò avrebbe causato i mali moderni che attanagliano la Chiesa (mancanza di vocazioni, allontanamento dai sacramenti, perdita di autorevolezza nella difesa di importanti valori etici); in realtà il vero problema è che i principi del Concilio devono ancora essere assimilati (soprattutto da noi laici) per cui rimane ancora molto forte l’idea di una parrocchia “erogatrice di servizi” dove alcuni addetti capitanati dalla guida (il parroco) distribuiscono tali servizi (dai più importanti, come i sacramenti, ai più organizzativi, come affittare le sale della parrocchia) col rischio di perdere di vista il senso vero e ultimo dell’essere chiesa, cioè di essere al servizio dell’uomo e di trasmettere l’amore di Gesù. Ma cosa c’entra tutto questo con l’agibilità della nostra parrocchia? Nella riunione del 3 settembre ci si è scervellati su come affrontare tale problema della ristrutturazione, proprio perché non appaia una richiesta che piove dall’alto, né che la gestione di tale questione sia affidata al parroco e a pochi “eletti”: tutta la comunità infatti è chiamata a partecipare, a sentirsi corresponsabile di questo. Come? Non necessariamente e solo con offerte in denaro: il sentirsi corresponsabili infatti può voler dire tante cose a partire dalle più semplici: Cosa so di quello che sta succedendo? Mi limito ai “sentito dire”, cadendo addirittura nei luoghi comuni (“tanto la chiesa è piena di soldi”, “ci penserà qualcun altro”) o cerco di informarmi sulle iniziative proposte per capirne gli scopi e le motivazioni (magari migliorandole con proposte costruttive)? Come posso contribuire? I lavori di sistemazione richiederanno anche interventi più pratici, posso dare un po’ del mio tempo per questo? Che idee posso avanzare? Ristrutturare non significa solo rifare i muri: si può cambiare qualcosa all’interno della chiesa? Per esempio. si possono mettere immagini più vicine alla nostra sensibilità? Sarebbe rischioso infatti pensare-sperare che un qualche benefattore risolva tutto con una ricca elargizione: questa modalità contribuirebbe solamente a deresponsabilizzarci e a perpetuare l’immagine di una Chiesa che non pensa ad aprirsi al mondo, ma a farsi semplicemente sorreggere da esso. Tutte le iniziative che verranno via via proposte vogliono andare proprio in questa direzione in modo da coinvolgere e rendere tutti corresponsabili di quello che si sta facendo: altrimenti spenderemo fatica, denaro, impegno per un tempio sì agibile, ma desolatamente vuoto.
Stefano Collorafi