Quando trema la terra sotto i piedi accade molto di più di quanto non ci si renda conto qualche istante dopo. Non si tratta  solo delle fratture negli edifici o addirittura  delle macerie di quelle che sono le strutture  più sacre: la propria casa, luogo per eccellenza  delle nostre sicurezze; il luogo di lavoro, frutto  dell’ingegno della nostra gente e investimento  per il futuro; le chiese, simboli di una cultura e  di un’appartenenza.  Quando trema la terra sotto i piedi accade  molto di più. Tutto viene rimesso in discussione: le priorità diventano improvvisamente  quelle più immediate, la percezione della propria fragilità di fronte ad un evento tanto imponderabile quanto violento diviene vivissima,  il futuro da esperienza programmata torna ad  essere incertezza o dono a seconda della capacità della propria speranza. “Ho una capacità  progettuale che non supera la mezz’ora”, dice  una donna che vive nei comuni più toccati dal  terremoto. E mezz’ora è un tempo lungo, perché la scossa viene in quell’attimo che non ti  attendi e in un’ora che non sai.  Trema la terra sotto i piedi, ormai da un mese alle persone e alle famiglie della nostra pianura, abituate ad abitare un terreno solido e  affidabile; trema la terra sotto i piedi alla nostra economia, che si vantava di avere strumenti per affrontare la crisi; trema la terra sotto i piedi anche alla chiesa, abituata ormai da  troppo tempo a dire il vangelo con le sue pietre, le sue opere d’arte, i suoi luoghi di tradizione, i suoi orari e ritmi… E adesso, come si  fa? Adesso che non c’è più la chiesa, le aule di  catechismo, la canonica dove trovare il prete  ad ogni ora? Adesso che le priorità sono altre  rispetto a quelle delle proprie devozioni? Adesso che scopriamo che il vangelo non è  “religione individuale”, ma solidarietà fraterna?  Quando trema la terra sotto i piedi, occorre  cercare un altro fondamento. La nostra “casa  ecclesiale” era forse costruita sulla sabbia: la sabbia della tradizione, la sabbia della conservazione, la sabbia della “chiesa supermercato”, dove la  messa c’è tutti i giorni, dove la “devozione fai-da-te”  era sempre assicurata dalle candele e dalle offerte…  Ma ora si tratta di costruire in modo nuovo, non sulla  sabbia, ma sulla roccia.  Quello che conta non è che ci sia la chiesa, ma  che ci sia il Vangelo. Non importa se il prete abita o  non abita la canonica, ma se ci annuncia Cristo. Non  serve la religione privata della visita al SS.mo sacramento, ma una fede condivisa, fatta di ascolto di Dio  e del fratello, di preghiera e azione.  Il terremoto non ci ha tolto Cristo, se lo abbiamo  accolto in noi e tra di noi. Ci ha tolto le chiese e le  nostre abitudini. In questo senso ci ha fatto violenza,  sì. Una violenza terribile: di simboli e di luoghi abbiamo infatti bisogno per incontrare il Signore e per  esprimere una fede comune. I simboli sono importanti e se è vero che ad essi non possiamo totalmente  rinunciare, è vero tuttavia che essi non possono diventare idoli, quasi che fossero loro la nostra salvezza e non solo un segno di qualcosa di altro e di oltre.  Il terremoto, nella sua cieca e ineluttabile violenza, ci  ha ricordato che i nostri simboli sono importanti, ma  non sono l’indispensabile. L’indispensabile è che il  Vangelo non ci sia tolto, è che l’esperienza di Chiesa  non ci sia tolta, perché è questo che ci rende pietre  vive di quell’edificio spirituale che nessun terremoto  può demolire.

don Ivo

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