Intervista a don Giancarlo Perego responsabile Centro documentazione Caritas italiana
Oggi le proposte della Chiesa e soprattutto la sua immagine danno spesso l’impressione che sia “roba da ricchi”. Dov’è finita l’opzione per i poveri, che Giovanni Paolo II aveva indicato come centrale per la Chiesa (cfr. Tertio Millennio Adveniente)?
Se la Chiesa è una famiglia, una comunità di persone, riportare al centro i poveri è naturale, come quando in casa c’è una persona che soffre: tutte le attenzioni sono per lei, tutta la vita famigliare ruota attorno a quel disagio. Così dovrebbe avvenire anche nelle nostre città. La Chiesa non è un’istituzione o peggio un’azienda; la Chiesa è fraternità, popolo in cammino. Con chi cammina la comunità se non col passo del più debole?
Come costruire una comunità attenta ai poveri?
L’azione della Caritas è stata pensata fin dall’inizio non come collaterale ma come educativa e di condivisione di responsabilità all’interno delle comunità parrocchiali (si veda ad esempio il discorso di Paolo VI alla Caritas italiana, 28 settembre 1972: «Al di sopra dell’aspetto puramente materiale della vostra attività, deve emergere la sua prevalente funzione pedagogica» ed ancora l’enciclica “Sollecitudo rei socialis”, n. 30). Le Caritas parrocchiali, come pure le altre associazioni che hanno come carisma la cura dei poveri, dovrebbero aiutare la comunità tutta intera a servire la comunione. Accade però che tali gruppi ricevano semplicemente una “delega” per occuparsi delle situazioni di disagio.
Come viene affrontato l’aspetto della carità nella catechesi?
Nel convegno ecclesiale nazionale di Verona del 200- 6, “Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo”, al centro della catechesi è stata posta la relazione. Si è sottolineata la necessità di ridisegnare «il volto di una comunità che vuol essere sempre più capace di intense relazioni umane, costruita intorno alla domenica, forte delle sue membra in apparenza più deboli, luogo di dialogo e d’incontro per le diverse generazioni, spazio in cui tutti hanno cittadinanza» (cfr. “Rigenerati per una speranza viva”, n. 12). Una sfida importante dopo Verona riguarda la cosiddetta “pastorale integrata”. I vari settori della pastorale debbono incrociarsi per la costruzione dell’esperienza cristiana. Anche nella liturgia i segni dovrebbero portare Domenica 5, ore 11: – Incontro di verifica dei genitori e dei bambini di III elementare – ore 18: adorazione e vespri. Venerdì 10, ore 16 (tempo permettendo) S. Messa con Unzione degli Infermi, in occasione della Giornata del Malato 2012 (è abolita la messa alle ore 19). Domenica 12, ore 11: – Narrazione per genitori e bambini di IV elementare a vivere il valore che esprimono. Quando celebriamo l’Eucaristia, dovremmo vivere pienamente il perdono, l’accoglienza, la pace, la condivisione. Non si tratta di gesti rituali, ma esperienziali. Essi vanno poi ripresi nella catechesi.
La partecipazione all’Eucaristia si traduce insomma in comportamenti molto chiari e concreti?
La carità non può essere legata ad un singolo gesto di elemosina, ma deve far rileggere tutta la propria vita in relazione alle altre persone. Liturgia, catechesi e carità sono tre aspetti interconnessi che accompagnano il passaggio ad uno stile di vita autenticamente cristiano, che comprende sobrietà, responsabilità, ascolto. Mi vengono in mente un paio di esempi tratti dall’attualità di questi ultimi tempi: non armarsi; non adottare un linguaggio aggressivo nella comunicazione…
Chiesa dei poveri, Chiesa povera: un tema molto discusso nell’epoca post conciliare. Oggi se ne parla di meno. Come mai?
Con il Concilio lo stile della sobrietà era emerso in modo significativo. C’era un desiderio di riforma che passava anche attraverso l’uso dei beni materiali. La riflessione portò, con la revisione del Concordato, alla nascita dell’Istituto centrale per il sostentamento del clero, che introdusse un principio di equità nella distribuzione dei beni ecclesiali. Questa razionalizzazione ebbe come effetto importante anche quello di liberare risorse per il servizio ai poveri. Il Concilio promosse la creazione del Consiglio per gli affari economici, con lo scopo di destinare delle risorse a progetti per le persone in difficoltà. Tale movimento in vari modi ha fatto convergere l’attenzione sugli ultimi, spingendo sia giovani che famiglie a fare scelte forti.
Quali sono attualmente le proposte concrete per attuare l’opzione per i poveri?
Per non rassegnarsi alla povertà, ci sono tre percorsi. Il primo è di carattere politico. Oggi non abbiamo un piano nazionale contro la povertà e neppure una lettura della povertà. Dopo De Gasperi e La Pira non c’è più stata un’azione di governo specifica per dare lavoro e casa a chi è nel bisogno. Anche se la situazione attuale va letta in modo diverso, i bisogni non sono cambiati. La seconda attenzione è quella per il reddito. Tre milioni di giovani non hanno un lavoro stabile. Laddove non è garantito un reddito minimo per i periodi di non lavoro, si instaurano meccanismi di illegalità, non c’è certezza del domani, anche la scelta di sposarsi ed avere figli viene rimandata. Occorre costruire una previdenza affidabile per chi ha un lavoro precario, anche nello spirito della mutualità. L’associazionismo è un valido paracadute, ma non si può delegargli tutto l’aspetto della protezione sociale. L’Italia e la Grecia sono gli unici Paesi europei dove non è garantito il reddito minimo. Il terzo aspetto è quello educativo, riguardo allo stile di vita cristiano. Non si può affrontare il tema della povertà se non si adotta uno stile di vita complessivo rispettoso per gli altri e il creato. Va ripresa con vigore la pastorale d’- ambiente: la povertà è legata a doppio filo con la solitudine ed il degrado dei quartieri. Ogni cristiano è chiamato a gesti semplici di condivisione, per ricostruire la comunità.