Erika è una ragazza della parrocchia di San Pio X che, insieme a Francesca, sta trascorrendo un periodo in missioni in Brasile. Pubblichiamo volentieri un primo saluto e resoconto dell’esperienza che stanno svolgendo

Carissimi,

nonostante siamo già qua da ormai tre settimane, ci sembra di essere arrivate ieri, pur essendo consce che questo tempo è in realtà volato. Siamo in Brasile, a San Paolo, e sì, viviamo in una favela. Una favela può essere composta da case costruite con cartoni, ma anche da case in muratura, come la nostra. Quello che rende un quartiere una favela, è il grado di insicurezza in cui vivono le persone. Forse noi non viviamo qui ancora da troppo tempo per poter descrivere in maniera oggettiva la realtà in cui siamo capitate. Questo primo impatto deriva solamente da quello che ci è stato permesso di vedere da fuori e da dentro. Da fuori, vediamo case costruite in maniera disordinata, senza nessuna regola ingegneristica o igienica. Una suora ci spiega che questi territori periferici sono stati “conquistati” e quindi occupati dalle stesse persone che, con il loro sacco di mattoni, hanno messo in piedi le loro abitazioni. Tutto questo è però rallegrato dai continui murales che sostituiscono i cartelli o le insegne ai quali siamo abituati, colorando le pareti o le saracinesche, per identificare le attività che le persone svolgono al loro interno. Un gommista accoglie i suoi clienti aprendo una saracinesca sulla quale compare il disegno di Saetta McQueen, il famoso personaggio di Cars, il cartone Disney. Un sorriso disegnato sul muro indica l’entrata verso uno studio di un dentista. Homer Simpson invece, con quel suo sguardo non troppo furbo, è particolarmente comune di fronte a bar e birrerie. Da dentro, i nostri sguardi si posano su ambienti spogli ma accoglienti. Aprendo la porta si è quasi obbligati a sedersi sul divano di quella che potrebbe essere una sala da pranzo, ma anche una cucina e uno sgabuzzino, e che quindi rappresenta la stanza principale condivisa da tutti i membri della famiglia. Le camere ci sono, ma non sono poi così utilizzate se non per dormirci. La gente passa gran parte del tempo in Strada. Letteralmente in Strada, seduta sui marciapiedi o conversando coi vicini, obbligando le macchine a rallentare per schivarla. Le suore che sono state in Italia non vedevano l’ora di chiederci: “Dov’è la vostra gente? Quando noi eravamo in Italia non vedevamo nessuno per Strada!”. Ci abbiamo pensato un bel po’. L’altro giorno siamo arrivate a questa conclusione: noi abbiamo costruito le strade per le macchine. Per molti di loro invece la Strada è: un giardino, un campo da calcio, un cortile in cui trovarsi un pomeriggio (o anche un giorno interno) per chiacchierare, un’alternativa alla noia che si consuma semplicemente nell’osservare chi passa, un luogo di commercio o un modo per aggiornarsi sulle novità. Le loro macchine viaggiano su strade che portano ben più lontano. Il Brasile è un paese enorme. Il concetto di distanza qua è molto diverso dal nostro. Quando sentiamo parlare di “posti vicini” possiamo aspettarci anche di passare dalle 2 alle 7 ore in macchina. Se un posto è veramente lontano, allora si contano anche 24 ore di macchina e da un estremo all’altro del paese (nord-sud) si impiegano 75 ore. Noi probabilmente dopo 75 ore di macchina arriveremmo in Cina attraversando ben due continenti! Questo uso della Strada deriva dalla mancanza di spazi pubblici ma anche da un grave indice di disoccupazione nella popolazione, che determina anche la povertà in cui la gente vive e convive: su alcuni volti di queste persone sedute sopra ai loro marciapiedi, si legge una certa rassegnazione. Le cose ormai non migliorano, quindi le scelte cadono su due consolazioni: la religione o la droga.

Abbiamo notato che in Brasile vince chi alza di più la voce: è per questo che le nostre impressioni ci portano a descrivere parallelamente questi mondi, che ricercano, ognuno a suo modo dei seguaci.

La Chiesa, sia essa cattolica o evangelica o pentecostale, si basa molto su riti e cerimonie, che a volte sfociano in credenze che noi definiremmo tradizionali. Siamo arrivate qua con un’idea di messa ricca di partecipazione, a livello di canti, di coinvolgimento della comunità, di spiritualità. E invece, come mai non riusciamo a inserirci nella tipica domenica brasiliana? Perché fatichiamo a sopportare la lunghezza della celebrazione, a trovare un momento in cui pregare in silenzio, ad accompagnare i canti con dei gesti, ad applaudire dopo il Vangelo? Ci sembra che la fede sia vissuta in modo molto materialistico, anche a causa della precarietà della vita in Brasile, in cui la gente pensa a sopravvivere giorno per giorno.

(continua)

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