Il progetto Rifugiato a casa nostra/1: le origini 

Quando si è annunciato che don Arrigo avrebbe lasciato S. Lazzaro e io avrei preso il suo posto, una delle prime domande che sono nate è stata: se don Raffaele vive in comunità con altri preti, chi abiterà in canonica? Come si fa a lasciare la parrocchia ‘incustodita’, senza qualcuno che garantisca una presenza continua? Un interrogativo legittimo, soprattutto dopo tanti anni in cui don Arrigo è stato una presenza costante in parrocchia, a volte svolgendo anche mansioni di ‘portinaio’ per i vari gruppi che avevano bisogno delle sale in tanti orari diversi. C’era l’abitudine ad aver sempre qualcuno a cui poter suonare, qualcuno che chiudesse la porta alla fine delle riunioni, qualcuno che facesse il giro delle sale per vedere se ‘i ragazzi’ – illudiamoci che siano solo loro! – si erano scordati di spegnere luci e riscaldamento … E adesso?

Ragionando con alcune persone della parrocchia, abbiamo provato a far evolvere questa domanda: da una parte c’è il bisogno di avere un controllo su porte e luci (una questione pratica); dall’altra c’è un appartamento che, non ospitando più il parroco, può essere disponibile ad accogliere altri, secondo ciò che la comunità ritiene più giusto (una questione di valore). Sono due cose diverse, che non necessariamente devono sovrapporsi. Impostando così il problema, siamo usciti da un ragionamento ‘pratico’, per passare ad un altro livello, quello valoriale: ribadire ai singoli gruppi che frequentano la parrocchia la necessità di una maggiore vigilanza su aperture/chiusure o acceso/spento poteva diventare un modo per far crescere tutti nella responsabilità verso un bene che è ‘nostro’, cioè di tutta la comunità (non solo del prete); l’appartamento libero poteva invece diventare una risorsa preziosa per porre un segno evangelico a favore della comunità e del territorio.

Il ‘problema delle chiavi e delle luci’ si è dunque risolto (più o meno!) riunendo i responsabili dei vari gruppi e concordando una linea comune di impegno; il mese di gennaio, con la parrocchia ‘vacante’, è poi servito per oliare un po’ il meccanismo. La domanda sulla canonica è invece andata avanti, strutturandosi pian piano come possibilità di accoglienza verso persone costrette a scappare dal loro paese. Due congiunture hanno portato a questo esito: da una parte l’appello di papa Francesco all’accoglienza fatto alle parrocchie, da cui è nato due anni fa il progetto di Caritas nazionale ‘Rifugiato a casa mia’; dall’altra, la conoscenza personale (mia e di p. Giuliano) di due rifugiati, uno dei quali vive già da un anno con un giovane di S. Pio X, mentre l’altro è ospite in una struttura del CEIS.

È così nato un progetto che abbiamo intitolato ‘Rifugiato a casa nostra’, che prevede l’accoglienza per il 2017 di due rifugiati (Ousmara Camara e Jamshid Kaviani) insieme a due volontari che hanno accettato di vivere insieme a loro (Matteo Orlandi e Giovanni Ricci). Questo progetto è coordinato con la Charitas diocesana e per i primi sei mesi si appoggia sull’iniziativa nazionale; il sogno è che la presenza di queste persone diventi un bene prezioso per la nostra comunità e allarghi il nostro sguardo di cristiani oltre i confini del nostro territorio.

Il Consiglio Pastorale ha prima accolto e poi ratificato il progetto, pur con comprensibili riserve, che solo il tempo e la conoscenza potranno eventualmente sciogliere. Essendo un progetto ‘a tempo’, sarà fondamentale un accompagnamento costante, per capire le modifiche da fare in corso d’opera e la direzione migliore da prendere. Se capiremo che il progetto è buono, potremo continuare anche i prossimi anni; diversamente, nulla ci vieta di cambiare.

Che dire? Partiamo!

(Rifugiato a casa nostra 19 02 2017)

Don Raffaele

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