Lunedì sera 9 maggio si è svolto il secondo dei due incontri organizzati assieme al Centro missionario modenese per commemorare il ventennale del martirio dei monaci di Tibhirine, orribilmente trucidati da estremisti islamici nel marzo del 1996 in Algeria. L’incontro, anticipato dalla visione del film “Uomini di Dio” il lunedì precedente, ha visto come protagonista Guido Dotti, monaco della comunità di Bose che ha curato il libro”Più forti dell’odio(di Padre Chistian De Chergé, introduzione e traduzione con raccolta di ulteriori testi a cura di Guido Dotti, monaco di Bose, Prefazione di Enzo Bianchi, priore di Bose, Edizioni Qiqajon, comunita` di bose, 2012)

Imbattutosi un po’ per caso un po’ per interesse nella vicenda, Dotti ha rivelato che ciò che l’ha maggiormente colpito di quanto avvenuto è stato l’enorme messaggio di vita che tale comunità ha seminato piuttosto che, anche se forse più appariscente, il pur grave martirio e morte. La comunità del Monastero di Notre Dame dell’Atlante dell’ordine trappista in Algeria (già presente dal 1938, ma all’epoca in procinto di chiudere) nasce negli anni ’60 per l’idea, da molti a suo tempo considerata “folle”, di ricostituire una comunità monastica (di Francesi!!!) in un’Algeria dilaniata dalla guerra di indipendenza. Eppure la comunità riesce ad inserirsi nel tessuto sociale circostante diventando ben presto un punto di riferimento rispettato dalla popolazione musulmana: impegnati nell’assistenza medica e nello sviluppo sociale (è della comunità l’idea di aprire una cooperativa per dare lavoro alla gente), per decenni la convivenza è stata pacifica e foriera di veri e propri miracoli di bene. E’ stato infatti il dare la vita ciò che ha reso questa comunità importante: mischiandosi e camminando fianco a fianco con la popolazione locale, i monaci hanno seminato amore, un amore che, pur non avendo convertito nessuno (non hanno infatti mai celebrato alcun battesimo!!!) ha comunque raggiunto la conversione più vera e certamente più gradita a Dio, cioè quella dei cuori. Dotti ha infatti rimarcato proprio come i monaci abbiano saputo essere missionari nel vero senso della parola e cioè testimoni di un amore più grande che dimostra quanto ogni uomo sia migliore dei propri errori. Tante volte infatti abbiamo un’idea sviante delle comunità monastiche contemplative pensando che la loro vocazione debba essere semplicemente uno staccarsi dal mondo e il contemplare sia semplicisticamente uno staccarsi dalla realtà per perdersi in un “altro tempo” etereo. Al contrario contemplare significa vedere come Dio vede le cose e quindi assumere uno stile, un atteggiamento di apertura e di contatto con il mondo per seminare amore. Solo così si ottiene fiducia, altra parola chiave emersa dalla serata: la comunità monastica è stata infatti un faro per la popolazione perché ha saputo trasmettere con gesti di solidarietà una forte empatia condividendo così con i fratelli musulmani, per così dire. la stessa fede. A tal proposito Dotti ha ricordato come le ultime parole dell’ottimo film (tra l’altro accuratamente preparato e girato dal regista) sono state riassunte nella piccola conversazione tra due dei monaci prima di essere rapiti e caricati su di un camion per essere poi uccisi: “Ce la fai?”, “Sì”. Questo semplicissimo dialogo riassume perfettamente il significato della loro presenza: è l’emblema della solidarietà umana, della necessità e desiderio di amore che abita in ciascuno di noi esprimendo, soprattutto nei momento di estrema difficoltà, ciò di cui ognuno di noi ha bisogno.

Per questo motivo non ci si è addentrati in modo approfondito sul perché e le circostanze della loro morte (tuttora oscure). Ripercorrere i fatti del loro assassinio è sì un dovere (molti parenti delle vittime stanno insistendo perché si giunga alla verità anche se tuttora il governo algerino è molto restio ad approfondire le indagini), ma non deve farci naufragare su questioni di cronaca (chi c’è dietro oltre agli estremisti? Servizi segreti? Altri gruppi violenti?) che ci distraggono dal vero significato del loro martirio che non è la morte, ma appunto la vita. Il loro infatti è stato un continuo dialogo interreligioso in un contesto non certo adatto né per tradizioni (islam) né per particolare capacità ricettiva (la popolazione locale era di semplici contadini e allevatori): tuttavia tale approccio è stato “vincente” proprio perché  basato sulla condivisione della vita, testimoniando una modalità di confronto con l’islam che oggi appare quanto mai necessaria.