“Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”. In questo passaggio della Lettera ai Galati (3,27-28), San Paolo concentra la novità portata da Gesù con la sua predicazione, azione e persona: farci “uno” in lui, incarnare l’unità di Dio con l’uomo e degli uomini tra loro. La Chiesa esiste per servire questa unità: la sua identità, come afferma il Concilio Vaticano II, è di essere “segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (Lumen Gentium 1). […] Quale contributo offre e può offrire la Chiesa alla Città? In che modo può servire l’unità degli uomini con Dio e tra di loro? La risposta è semplice: continuando a svolgere la sua missione pastorale nella fedeltà al Vangelo. È semplice, però solo in teoria, perché in pratica le persone appartenenti alla Chiesa – ossia i battezzati – cadono spesso nei peccati, nei compromessi, nella ricerca dei propri interessi, talvolta persino nell’illegalità e nel reato. […] La Chiesa non può indicare credibilmente alla Città le strade da percorrere, se contemporaneamente non percorre quelle stesse strade al suo interno. Chiesa e mondo, del resto, non sono due grandezze parallele, ma si intrecciano: la Chiesa è quella parte di mondo che “guarda con fede a Gesù” come al suo Signore (cf. Lumen Gentium 9). I cristiani sono davvero tali se, all’interno di uno Stato libero e democratico quale è il nostro, sono prima di tutto cittadini onesti. E credo allora che, con tutti i suoi difetti, la comunità ecclesiale incida positivamente sulla comunità civile. Nell’agenda sociale di oggi, nazionale e non solo modenese, molti sono gli argomenti all’ordine del giorno. Due tra di essi convogliano ai nostri giorni molte passioni: l’immigrazione e le unioni civili. Sono due temi che destano contrapposizioni culturali e politiche, animano dibattiti anche accesi, ispirano trasmissioni televisive, articoli giornalistici, convegni e numerose prese di posizione, producono abbondante bibliografia. […] Le comunità cristiane delle origini, rispecchiate particolarmente nelle Lettere di San Paolo, si trovavano di fronte a tre grandi divisioni sociali: tra giudei e greci, tra schiavi e cittadini liberi, tra uomini e donne. Erano come tre grandi muri, considerati da alcuni come divisioni “naturali”; valevano di più queste categorie sociali distintive, rispetto all’appartenenza all’unica famiglia umana. Contavano di più, in altre parole, l’appartenenza etnico-religiosa (giudei e greci e, più in generale, cittadini e stranieri), la disparità sociale ed economica (schiavi o liberi) e la distinzione sessuale (uomini o donne), rispetto alla fondamentale incorporazione al “genere umano”. Di fronte a questi muri, i cristiani non si scoraggiarono e testimoniarono che “in Cristo” tutti siamo uno. Era una testimonianza prima dei fatti che delle parole. Nelle case – dove allora si riunivano, non potendo costruire chiese e strutture, come avviene ancora oggi nelle tante situazioni di persecuzione religiosa – i battezzati cominciarono a definirsi tra di loro “fratelli” e “sorelle”. Le distinzioni tra ebreo, greco, schiavo, libero, maschio e femmina vennero subordinate all’unità data dall’unico battesimo, aperto a tutti e non riservato solo ad alcuni. Nelle case in cui la comunità si incontrava, dette poi dal II secolo Domus Ecclesiae, i fedeli si trovavano tutti “alla pari”: fossero di origine ebraica o pagana, fossero schiavi o liberi, fossero uomini o donne, tutti partecipavano al cammino catecumenale e alle catechesi, tutti potevano prendere parte alle celebrazioni liturgiche e – quando sussistevano le condizioni – fare la comunione e tutti offrivano il loro contributo per progettare la vita missionaria e pastorale della comunità e per assistere i poveri e i malati. Attraverso questa esperienza, fondata sull’abbattimento dei muri da parte di Gesù – muri che emarginavano bambini, donne, schiavi, malati, peccatori e stranieri – le prime comunità cristiane compresero ancora meglio il significato della creazione, per cui su ogni essere umano è impressa l’immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1,26-27) e il significato della redenzione, per cui ogni essere umano, senza distinzione, è unito a Cristo e salvato da lui. Con umiltà e fermezza i cristiani inserirono nelle società antiche il valore della dignità della persona umana e la sua priorità rispetto a tutte le distinzioni di ruoli e condizioni, il primato del sostantivo rispetto all’aggettivo. Umiltà e fermezza: questo è lo stile evangelico. Umiltà: la Chiesa sa di essere, nella società pluralistica, una delle voci in campo nella società civile e di non avere più corsie preferenziali. Anche per questo non fanno parte del suo stile l’arroganza e la provocazione polemica – prassi così diffuse nel dibattito pubblico – e sono comprese invece la mitezza (cf. Mt 5,5; 11,29) e la disponibilità a ragionare (cf. Gv 18,23). Fermezza: la Chiesa non può rinunciare a portare avanti, in ogni cultura, quei valori fondati sul Vangelo che ritiene siano contributi alla crescita della civiltà. Se i primi cristiani non avessero osato sfidare i dogmi della società dell’epoca, quelle divisioni etniche, religiose, sessuali, economiche e sociali si sarebbero sfaldate con maggiore difficoltà. La Chiesa è una realtà variegata e non monolitica. Una convinzione diffusa identifica la Chiesa con i suoi pastori (papa, vescovi e preti), mentre in realtà essa è formata da tutti i cristiani e quindi, nella grande maggioranza, da laici. Come ha chiarito definitivamente il Concilio Vaticano II, mentre ai pastori compete la formazione delle comunità cristiane attraverso la predicazione, la celebrazione e la guida pastorale, ai laici compete l’impegno diretto nei diversi settori della vita sociale. Non si può chiedere ai pastori, come talvolta avviene, di sostituirsi ai laici: sul fenomeno migratorio come sulle unioni civili – per accennare ancora ai due temi oggi più caldi – spetta ai laici cristiani entrare nei diversi luoghi in cui si svolge il dibattito: dalla famiglia ai partiti, dalla scuola al mondo del lavoro, dalla cultura al volontariato. Ai pastori spetta formare le comunità ai valori di fondo – fondati sulla rivelazione e sostenuti dalla ragione – che sono alla base delle mentalità e delle prassi e sfociano nelle leggi e nelle normative. In questo spirito, concludo la lettera richiamandone l’idea di fondo: il sostantivo è più importante dell’aggettivo. Il sostantivo “essere umano” è più importante delle sue specificazioni: cittadino o straniero, uomo o donna, cristiano o musulmano, bianco o nero, povero o ricco, sano o malato, nascituro o nato, giovane o vecchio, santo o peccatore. Se dimentichiamo questo principio, fondamento della civiltà occidentale nata anche con l’apporto del cristianesimo, retrocediamo anziché progredire. Questo principio è servito soprattutto a proteggere gli esseri umani più deboli e riconoscere loro uguali diritti.

Nel dibattito sull’immigrazione, occorre tenere presente la priorità dell’“essere umano” sullo “straniero”, specialmente quanto è rifugiato e quindi in una situazione particolarmente debole e sofferente; dentro a questa priorità va favorita l’inclusione o integrazione sociale, in un contesto di piena legalità e adesione alla Costituzione italiana e alle leggi del nostro Stato. La Città non può respingere per principio chi proviene da fuori, ma deve favorire – come sta facendo – un processo educativo che comporta l’alleanza tra istituzioni pubbliche e private, famiglie, scuole, parrocchie, volontariato. La Chiesa quindi fa e può continuare a fare molto per l’accoglienza e l’integrazione, contribuendovi attraverso la sua grande e spesso poco appariscente opera educativa, verso i cristiani e verso i non cristiani.

Anche nel dibattito sulle unioni civili e sui temi in genere ad esso collegate – come il gender o le unioni omosessuali – è necessario comporre il riconoscimento dei cosiddetti “diritti civili”, in modo che non vi siano discriminazioni individuali, tenendo però presenti le parti più deboli: la famiglia fondata sul matrimonio e i bambini. La famiglia sposata, infatti, appare oggi in alcuni casi socialmente penalizzata rispetto alle coppie conviventi; dai tempi antichi, invece, le legislazioni avevano favorito l’unione stabile tra un uomo e una donna, in vista dell’accoglienza ed educazione dei figli e di una trasmissione ordinata del patrimonio: non quindi per motivi religiosi, ma per motivi sociali. I bambini poi, per crescere e maturare, richiedono entrambe le figure parentali, maschio e femmina: è necessario mettere loro, come parte più fragile, al centro dell’attenzione e farne il perno dei “diritti” anche quando si tratta dell’adozione.

Consegno queste riflessioni a chiunque desideri proseguire un dibattito che non si limiti a dare voce ad emozioni momentanee, ma accetti di ragionare e confrontarsi sulla teoria e sull’esperienza.

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