Dalla “Gazzetta di Modena”

Monsignor Erio Castellucci vescovo di Modena e Nonantola si racconta: «Mi sono sentito inadeguato, ma mi hanno detto che non si può dire di no al Papa. Non usate “eccellenza”: so che questo non è il problema ma i titoli creano distanza»

 

MODENA. Parrocchia di San Giovanni Evangelista, quartiere residenziale di Forlì. È un pomeriggio caldo, i ragazzi giocano nel cortile dietro la canonica, si avvicina un bambino di colore: «Cercate don Erio? Quella è la porta, andate pure». Lo troviamo, sorridente e disponibile, sommerso dai cartoni di un trasloco in evoluzione: «Il più è fatto, ma quella è la parte più dolorosa», e indica il suo ufficio, dove ancora riceve le tante persone che hanno in lui un punto di riferimento.

Don Erio, dicono che Forlì perda un punto di riferimento.

«Forlì perde un parroco, che però sarà abbondantemente sostituito. Chi dice così forse conosce la mia principale attitudine, che in questi anni è stata quella di ascoltare le persone, con incontri personali o rivolti alle coppie. Qui, nel mio studio, diverse ore al giorno sono dedicate all’accompagnamento spirituale».

Il suo trasferimento a Modena le cambierà la vita. Quando lo ha saputo?

«Il 25 maggio scorso, alle 11.10, un momento che ricordo bene: il nunzio apostolico mi ha convocato a Roma, pensavo di essere consultato per le future nomine, un prassi quando devono essere nominati dei vescovi. E invece…».

Cosa ha pensato?

«Che non sono adatto. Per circa un’ora ho dibattuto con lui, cercando di convincerlo che si stavano sbagliando. Non ho firmato l’incarico, mi sono preso qualche ora, ho chiamato il mio vescovo – monsignor Lino Pizzi,modenese – al quale ho espresso tutte le mie perplessità. Sa, non era un cambio di parrocchia».

Cose le hanno risposto?

«Che non si poteva dire di “no” al Papa».

E lei?

«Il giorno dopo sono tornato dal nunzio apostolico, gli ho detto che dubitavo fosse stato proprio Papa Francesco a indicare il mio nome e mi ha subito fermato dicendomi che, da quando è in carica, è lui personalmente che controlla tutte le candidature. Forse ho mancato di rispetto, ma mi sono sentito inadatto».

A chi ha pensato?

«Al mio vecchio parroco, a mia mamma Silvana scomparsa a febbraio. Don Carlo Gatti, che ho sostituito in questa parrocchia, mi diceva ridendo in dialetto romagnolo “i vescovi non capiscono niente”. E allora, pensandomi vescovo, questa cosa mi ha consolato».

Con Papa Francesco ha parlato?

«Una volta sola, il 29 giugno scorso in occasione della consegna del pallio. Gli ho detto “Io ero un parroco felice…”. Lui si è fermato, ha chiesto il mio nome e mi ha detto: “Ah sei tu. Il tuo nome era qui – indicando la sua testa – poi qui – indicando la sua mano che scriveva – e poi… tac. E mi ha guardato negli occhi. Sicuramente sta seguendo logiche diverse dalla carriera ecclesiale, dagli scatti automatici: ha eliminato le sedi cardinalizie, sta dando nuovi criteri».

A proposito di carriera, è noto un suo articolo dove in passato criticava i titoli ecclesiastici.

«Tra l’ironico e il serio ho detto che i titoli onorifici come monsignore, eccellenza, eminenza descrivono un apparato fuori dal tempo e creano distanza. Io terrei solo quelli della vita ecclesiale: diacono, don, vescovo che già vogliono dire signore, padre. A Modena cercherò di dire che se si può evitare “eccellenza” sono felice, ma se qualcuno lo userà non mi arrabbierò. Io sono e resterò don Erio. So che non è questo il problema, ma l’incontro tra la Chiesa e i fedeli va favorito in tutti i modi».

Ci dica che tipo di persona è.

«Non è facile auto descriversi, anche perché magari altri vedono difetti o pregi che io non riesco a vedere. Ci provo con una serie di aggettivi e avverbi: abbastanza cordiale, piuttosto timido, a tratti permaloso, qualche volta sfuggente (anche per legittima difesa), allergico alle persone invadenti (idem), costante e ogni tanto puntiglioso. Insomma un caratterino difficile… mascherato da frequenti sorrisi».

Che ricordo ha della sua infanzia?

«Vengo dalla campagna, Roncadello, dove i primi due anni di scuole venivo sempre corretto perché per parlare in italiano traducevo dal dialetto. C’erano il campetto parrocchiale e i pattini a rotelle, ci giravamo anche in casa».

La vocazione quando arriva?

«Attorno ai 18 anni. Andai dal mio parroco, don Varo. Mi disse che ne avremmo riparlato dopo la maturità. E così fu, entrai in seminario a Bologna. È difficile descrivere quei momenti, è come un innamoramento per una prospettiva. Così ho scelto di verificare questa strada immaginandomi prete nell’ottica del parroco, tra la gente».

Come arriva in parrocchia a Forlì?

«Me l’hanno fatta sudare. Sono stato ordinato nel 1984, dopo teologia mi chiesero di rimanere a Roma a studiare. Dicevo messa nella parrocchia diSan Gregorio, quasi una città, nel cuore della Magliana. Erano anni difficili, la sera non ci si muoveva da soli».

Quali passioni coltiva?

«Amo la montagna, le escursioni, i ghiacciai. Indimenticabili il Cevedale, il Gran Paradiso e l’arrivo al rifugio Capanna Margherita sul Monte Rosa: dopo alcune peripezie, per non sbagliarci, ordinammo sia un brodo caldo che una birra fredda. Poi il ping-pong, l’arrampicata, abbandonata per l’ernia al disco. E mi piaceva giocare a calcio, ero un buon terzino destro. Ho già detto a mio fratello, vicepresidente del Forlì, che comincerò a tifare Modena».

Dicono che le piacciono i motori, quale città meglio di Modena

«Una volta amavo le auto veloci, ma diciamo che ho preso qualche multa di troppo. Oggi ho una Punto a metano e va benissimo così».

Il libro sul comodino?

«Attualmente sto leggendo un saggio tra fede e scienza poi, tra le cose che leggo su Modena, anche il libro di riflessioni del sindaco Muzzarelli».

Che rapporto deve avere la Chiesa con la politica?

«La parola chiave è laicità, non laicismo. Una collaborazione nella diversità di ambiti unita dalla necessità dell’uomo. La Chiesa non ha soluzioni tecniche in campo politico, ma è uno degli agenti sociali interessati alla formazione dell’individuo. Pensiamo solo al volontariato, all’educazione, all’assistenza. Nel discorso che farò agli amministratori dirò che la Chiesa non deve passare come elemento parallelo o concorrente. La Chiesa è, come diceva Gesù “luce, sale, lievito”, collabora con testimonianza critica, sempre con l’intento di aiutare».

A proposito di sostegno, è di attualità il tema profughi. Che ruolo ha la Chiesa?

«La Chiesa deve educare ad uno stile di accoglienza ed integrazione. C’è disinformazione e si tende ad identificare l’extracomunitario come pericolo, sia in termini economici che di sicurezza, fermo restando che la legalità deve essere sempre garantita. La Diocesi di Modena si è già mossa con le istituzioni. Vedremo con i preti se ci sono immobili non utilizzati che possano servire per l’accoglienza. Il contributo della comunità cristiana, oltre alla logistica (spazi e strutture), consiste appunto nell’educazione in parrocchie, negli oratori, nelle scuole».

Sul tema dell’immigrazione il Papa si è speso molto, aperture sono arrivate in questi mesi anche su divorziati, nuove famiglie, unioni civili. Lei come la pensa?

«Quella di Papa Francesco è una chiesa che prende per mano, che conduce alla verità. Prendiamo l’esempio dei divorziati: la prima cosa a cui pensare non è “comunione sì o no”, ma piuttosto la sofferenza che c’è dietro a queste separazioni. Cominciamo da lì. Il Papa sta cercando di applicare il principio della misericordia verso tutti, alcuni lo scambiano per buonismo, ma non è così. È il metodo di Gesù. Misericordia non è la legittimazione di ogni situazione, ma l’innesto in una condizione, fosse anche la più lontana dalla visione cristiana, e l’accompagnamento verso il bene. Sulle unioni civili la posizione è chiara da tempo: la tradizione cristiana riconosce diritti, così come la Costituzione, le persone non devono mai essere discriminate. Se ci sono diritti individuali che non sono abbastanza riconosciuti, penso all’assistenza sanitaria o all’eredità, questi vanno perseguiti senza costruire una nuova forma di famiglia equiparata che, ad esempio, nel caso delle coppie omosessuali, comporterebbe anche l’adozione. Il principio secondo la Chiesa è quello di una coppia generativa, come famiglia, poi ci possono essere diritti di altre forme di coppia».

Vescovo giovane di un clero vecchio: come farà?

«In realtà non ho avuto l’impressione di un’età media così alta. Io poi non sono più così giovane, perché mi avvicino a grandi passi ai 60 anni. L’età è un fattore relativo. Anzi, ho trovato molti sacerdoti di una certa età aperti al dialogo».

Anche a Modena crisi di vocazioni e parrocchie non coperte da parroci: c’è una medicina a tutto questo?

«Passando attraverso gli organismi di partecipazione (consigli parrocchiali, vicariali, diocesani, uffici) dovremo studiare qualche progetto “a lungo termine” per ridefinire la pastorale in relazione al numero di preti che si va prospettando, anche attraverso tanti laici disponibili, i diaconi permanenti e i ministri istituiti, i catechisti, e così via, tutti doni dello Spirito».

È già venuto a Modena diverse volte: che Diocesi ha trovato?

«Mi era stato detto da alcuni amici vescovi che sarebbe stato meglio non visitare la diocesi e non incontrare troppe persone prima dell’ingresso. Ho disobbedito – sorride – per un motivo: dovendo avviare il ministero all’inizio dell’anno pastorale, era necessario prendere contatti e già alcune decisioni. In più volevo rendermi conto dei danni, non solo materiali, causati dal terremoto: ho trovato una diocesi vivace, desiderosa di camminare, con alcune ferite per le quali dovremo insieme darci da fare».

Che diocesi vuole costruire?

«Metto le mani avanti: il vescovo può influire solo in parte sulla vita di una diocesi. La Chiesa non è una specie di monarchia illuminata e neppure una democrazia parlamentare, dove le decisioni vengono prese a colpi di maggioranza. La Chiesa è “sinodo”, cioè “cammino insieme”: chi guida può dare degli orientamenti, prendere delle decisioni e suggerire uno stile, ma tutti insieme, ciascuno secondo i doni ricevuti, deve mettersi in gioco. Il mio punto di riferimento sarà il Concilio Vaticano II che, insieme al magistero dei papi degli ultimi cinquant’anni, rappresenta il faro per la nostra pastorale. Il Concilio ha disegnato una Chiesa che non si impone in modo arrogante, ma nemmeno si nasconde in modo rinunciatario; una Chiesa che è sale e lievito e non ha paura di essere “minoranza creativa”, come diceva papa Benedetto XVI».

Non è un mistero che il clero modenese sia diviso ormai da anni su posizioni più o meno conservatrici: è un problema questo? Cosa chiederà ai suoi sacerdoti?

«Quello che stavo dicendo: la fedeltà al Concilio Vaticano II, il grande interprete della rivelazione cristiana per la nostra epoca, senza spinte né verso una sperimentazione innovatrice spericolata, né verso un tradizionalismo chiuso e nostalgico. Qualche giorno fa un altro giornalista mi diceva una cosa che mi ha fatto molto ridere: aveva parlato di me con alcuni e aveva raccolto da parte dei “conservatori” una forte preoccupazione, perché pare che sia considerato un prete “modernista”, e da parte dei “progressisti” un’altrettanto forte preoccupazione, perché sapevano che sono un conservatore. Rischio la crisi di identità! A parte gli scherzi: conservatori e progressisti sono categorie piuttosto improprie nella Chiesa».

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