Martedì 17 febbraio, nel primissimo pomeriggio, siamo tutti stati raggiunti dalla notizia della morte di Mons. Antonio Lanfranchi, nostro vescovo dal 14 marzo 2010.

In tutte le chiese abbiamo pregato spesso per lui in questi mesi di malattia. Lo abbiamo fatto ripetutamente nelle domeniche come nei giorni feriali. E’ stato l’unico modo con il quale abbiamo potuto testimoniare il nostro affetto e il nostro sostegno al vescovo nella dura lotta contro una malattia spietata e molto rapida, che gli ha consentito soltanto una tregua nei mesi autunnali e all’inizio dell’inverno.

Mille e mille parole sono state dette e scritte a suo ricordo. Non è utile aggiungerne altre, né dei miei incontri personali con lui, né del suo ministero ecclesiale.

Un elemento che mi ha fatto molto pensare è stata la solitudine di questo pastore nei confronti del “suo” popolo. Certamente gli si è stati accanto con ogni premura e con costante attenzione a garantire tutto quanto fosse necessario al suo bene. La malattia e la morte di un vescovo, tuttavia, non sono mai un fatto privato: sono un’esperienza che  riguarda tutta la comunità.

La sua comunità ha pregato per lui e questo è certamente il primo atto di amore e di accompagnamento. Senza gravare sulle sue forze e senza appesantire il suo cuore, sarebbe stato umano e cristianamente fecondo poter condividere con lui qualche comunicazione, per cercare un modo di dare senso insieme all’esperienza del morire. Non c’è, infatti, altra consolazione che quella di non essere soli davanti a questa esperienza, e di fare di essa il compimento della propria vocazione e del proprio tragitto esistenziale.

don Ivo

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