Lo scorso 18 ottobre il consiglio pastorale si è riunito nuovamente per riflettere su come trasmettere la fede alla nostra comunità.  Se la volta precedente si è preso spunto dalle novità introdotte dalla chiesa nuova (cercando si approfondire quale rappresentazione di Dio trasmettono e come tale rappresentazione viene recepita) venerdì 18 si è partiti riflettendo su due eventi che hanno caratterizzato l’inizio dell’anno pastorale e cioè la sagra e lo spettacolo sul concilio. Tutti hanno convenuto che dalla sagra sia emersa una comunità meno presa dalla smania del fare e più desiderosa di condividere in semplicità un momento di festa (anche se il tempo non è stato favorevole ci si è comunque ritrovati) mentre dallo spettacolo è emersa una comunità desiderosa di essere protagonista in tute le sue parti senza necessariamente l’input e/o la spinta dei sacerdoti. E’ un po’ l’immagine di come un evento tradizionale (la sagra) possa essere rinnovato e di come un evento straordinario (lo spettacolo) possa gettare le basi su di un cammino nuovo. La domanda di fondo è stata quindi se la nostra comunità parla di Dio e soprattutto di quale Dio. Per approfondire tale domanda si è letto un testo tratto dalla conferenza tenuta a Genova nel giugno del 2008 all’incontro nazionale dei direttori degli uffici catechistici diocesani d’Italia. In tale testo erano esposte le cinque resistenze più diffuse a Dio nella società contemporanea partendo dalla più tradizionale (la posizione agnostica del “Dio non esiste”) a quella più moderna (Dio potrà anche esistere, ma non ha alcun peso concreto nella mia vita). Per poter essere una comunità che parla di Dio non solo occorre aver chiaro queste resistenze, ma (cosa più spiazzante) assumere l’atteggiamento corretto verso di esse non (come troppa pastorale del passato ha fatto) cercando di “combatterle” affermando in modo perentorio e semplicistico la loro non validità  in una sorta di muro contro muro bensì riconoscendo che anche noi stessi ne siamo o ne siamo stati attraversati. Riconosere che queste resistenze ci abitano, che anche in noi c’è un non credente è un’opportunità per dialogare: nessuno diviene lontano o incomprensibile. Allo stesso modo occorre uscire dall’identificazione “appartenere alla chiesa=cammino di fede”: a volte ci possono essere degli stop improvvisi, delle crisi che, se ben affrontate, ci fanno sentire gli altri meno lontani e il cammino di fede meno preimpostato o asettico, ma più umano. Non si tratta ovviamente di farsi sedurre dalla forza spesso distruttiva di tali resistenze, ma di comprenderne l’essenza puramente umana che esse hanno, non semplicemente ideologica. Tale conclusione ha acceso un dibattito più ampio perché tutti hanno riconosciuto che occorre reimpostare il nostro modo di porci e di vedere non solo la nostra pastorale, ma tutte le dimensioni di cui si nutre la parrocchia (dalla catechesi alla liturgia alla carità). Per questo motivo continueremo tale riflessione alla fine di novembre invitando però tutti ad approfondire questi aspetti magari rileggendo il testo delle cinque resistenze proposto venerdì (chiedetelo a Don Ivo…)