Sono passati 50 anni. Dall’apertura del Concilio  Vaticano II e dalla conclusione della maggior  parte dei lavori della nostra Chiesa. 50 anni lasciano  il segno, e chiedono di iniziare un nuovo cammino.  Anzitutto un cammino per diventare quella chiesa  che con coraggio il Concilio ha indicato. La chiesa è  il Popolo di Dio, comunità di uomini e donne che insieme celebrano il Signore nella loro Liturgia dentro  la quale si rinnova la vita di ogni giorno; è il fermento  evangelico e il seme di fraternità nel mondo, da accogliere con simpatia e con il quale camminare verso il  Regno; è il luogo dell’ascolto della Parola di Dio nascosta nelle sacre Scritture e nelle pieghe della storia,  quella grande e quella piccola di ciascuno di noi.  Questo primo obiettivo è ancora lontano da noi:  diventare comunità corresponsabile è un cammino del quale abbiamo appena imparato a fare i primi passi. Ma abbiamo ormai l’entusiasmo di chi cominciando  si appassiona e non si vuole più fermare!  In secondo luogo il nostro nuovo cammino ha l’obiettivo di assumere la responsabilità di una chiesa  (quella di mattoni) che il peso dei 50 anni li sente tutti: e se mai ha potuto essere gloriosa per le sue esterne sembianze, oggi essa soffre anche di mali più nascosti: quelli di uno scheletro e di muscoli non adeguati al fatto di esserci scoperti terra fragile, esposta  al concreto pericolo del terremoto.   Ecco i due compiti consegnati a noi 50 anni dopo e  che vogliamo assumere quest’anno: restaurarci, per  diventare una chiesa più corresponsabile, più bella,  più conforme al sogno del Concilio (e del Vangelo!);  e restaurare, per diventare una casa più sicura, più  accogliente per chi cerca il Signore nelle mura e nelle  parole della Chiesa. Più uniti tra noi e più solidi intorno a noi: due obiettivi che vogliamo tenere insieme.   Non vogliamo lasciarci prendere dalla smania di  restaurare l’edificio, senza diventare consapevoli che  il restauro più laborioso e mai finito è quello interiore; ma non vogliamo nemmeno trascurare la sicurezza, la vivibilità dei nostri muri e qualche piccolo accenno di bellezza. Un cammino dove il lavoro esteriore resosi necessario, sia metafora di quello interiore, ben più indispensabile.

don Ivo

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