Pubblichiamo la prima parte di un intervento di Serena Noceti (Docente di teologia sistematica presso la Facoltà teologica dell’Italia centrale) riguardante la necessità di rivedere l’iniziazione cristiana al fine di interrogarci e capire quali iniziative attuare per una formazione cristiana dei nostri bambini più adatta ai nostri tempi.
All’inizio della celebrazione del battesimo dei bambini, alle porte della chiesa, il celebrante interroga i genitori sulle loro intenzioni e sulla richiesta che li spinge: «Che cosa chiedete per il vostro bambino alla chiesa di Dio?». Dietro la risposta che il rituale sinteticamente prevede – «il battesimo» – vengono a essere raccolte intuizioni e desideri, di differente tenore e spessore, che hanno spinto i genitori ad avvicinarsi alla parrocchia per chiedere il sacramento. Gli incontri di preparazione permettono di dare parola al senso di tale richiesta, ma le motivazioni che così vengono a emergere appaiono spesso deboli quando non ambigue (ritualizzare la nascita, il battesimo con segno del “religioso” o di un’appartenenza tradizionale alla comunità sociale prima ancora che cristiana) o frutto di una lettura tradizionale del sacramento di cui non si comprende più profondamente logica e senso (liberare dal peccato originale, che divenga “figlio di Dio”). Se da una parte le attese dei genitori appaiono spesso vaghe, dall’- altra i termini tradizionali della dottrina cristiana appaiono desueti e poco significativi. Dietro la stessa risposta rituale (“il battesimo”) vengono poste, dai genitori come anche dagli operatori pastorali, realtà diverse: il sacramento, l’identità battesimale che da esso scaturisce, l’educazione alla fede, il rito, la cerimonia, etc. Il confronto con le motivazioni – sia quelle dei genitori, su cui più spesso riflettiamo, sia su quelle che muovono la comunità cristiana all’accoglienza della richiesta – appare però imprescindibile per chiunque voglia operare una rivisitazione della prassi sacramentale di iniziazione cristiana. È importante rilevare fin dall’inizio che dietro la richiesta dei genitori, spesso non sufficientemente motivata o anche ambigua nei suoi elementi portanti, può essere colto in ogni caso un elemento di autocoscienza di fede, dal quale partire: i genitori – nello stesso porre la domanda – riconoscono il ruolo della chiesa nella mediazione della grazia di Dio e desiderano questo dono di Dio per i loro figli; c’è un certo – seppur anche vago – riconoscimento di senso accordato al sacramento e alla comunità cristiana. Tuttavia il dialogo tra genitori e chiesa (quello rituale esplicito e sintetizzato nelle formule a cui la tradizione liturgica ci affida e quello implicito della quotidianità della vita pastorale parrocchiale) si colloca in un tempo di transizione ecclesiale. Si levano sempre più frequentemente voci di disagio e lamentele da parte dei catechisti, come anche dei presbiteri impegnati in pastorale. Si è consapevoli dell’insufficienza della prassi tradizionale di iniziazione cristiana; il modello impostosi con il Concilio di Trento (XVI secolo) appare obsoleto e con evidenti limiti teologici, come anche il fatto che esso risponde a un contesto sociale, culturale, religioso che oggi – in un tempo di secolarizzazione e di urbanizzazioni crescenti – non esiste più. Non è più adeguato un modello catechistic o p e n s a t o n e l l a f o r m a d i u n a “preparazione” (dottrinale e scolastica) “ai sacramenti”, che dà per avvenuta una fase iniziale di evangelizzazione, che considera scontata la scelta cristiana della famiglia (e il suo coinvolgimento in un esempio di vita): una catechesi che comincia quando il bambino ha 7/8 anni e finisce di fatto intorno ai 13/14 anni. Il contesto del quale siamo parte non è più “cristiano” e i processi di identità e di formazione si generano secondo canali differenti rispetto al passato. Il modello tridentino separava di fatto la prima iniziazione -fatta di esempi e gesti, proposti in famiglia, soprattutto da figure femminili, “senza parole” se non quelle delle formule tradizionali della preghiera e dei gesti della devozione- dalla catechesi “dottrinale”, che si realizzava solo in parrocchia, proposta da presbiteri e catechisti, “addetti ai lavori”. Oggi la socializzazione religiosa familiare non vien più vissuta, se non in rari casi, e tutto si concentra sul momento dottrinale della catechesi in età scolare. Il modello catechistico vive così di “deleghe in bianco”: quella della comunità ai genitori (per gli 0-6 anni) e quella dei genitori e della comunità ai catechisti (7-13 anni). Soprattutto vede un “colpevole” vuoto pastorale nella fascia più delicata e significativa nel processo formativo: quella che va dalla nascita fino ai 6/7 anni, il periodo nel quale si formano le strutture relazionali, etiche, comunicative, di appartenenza sociale basilari. Se spesso si lamenta, anche giustamente, la debole coscienza e limitata formazione dei genitori, va rilevata e denunciata con forza maggiore la debole coscienza teologica e pastorale della comunità cristiana, la quale ha individuato i limiti del modello tridentino di formazione, sa che questo modello è contraddittorio con i tempi e con la teologia, tuttavia non agisce per mutarlo. Allo stesso tempo è importante rilevare alcuni significativi segnali di novità, sia nei documenti del Magistero della Chiesa che sul piano delle esperienze pastorali: per esempio il coinvolgimento attivo dei genitori oppure la proposta di percorsi educativi alla fede per bambini nella fascia 0-6 anni costituiscono delle prospettive innovative, feconde di sviluppi e trasformazioni del modello catechistico complessivo. Si è tornati a riflettere sulle forme, le modalità, i tempi della iniziazione cristiana, nel suo insieme e in rapporto allo specifico sacramentale. La comunità cristiana si trova quindi a vivere un momento di una “trasformazione possibile”, proprio intorno al permanere di una appartenenza “tradizionale”, che la richiesta del battesimo neonatale e della prima comunione sancisce. Si tratta di divenire consapevoli delle possibilità presenti nella mediazione “implicitamente” riconosciuta alla comunità ecclesiale e della sfida che è data dal riconoscere i genitori come primi educatori alla fede dei figli.
Per un nuovo catechismo (seconda parte)