S e per approfondire il senso del perdono cristiano Fra Mauro ha preso come riferimento un noto brano evangelico (Mt 18, 15-20), più originale è stata la scelta di affidarne il commento a San Francesco (Regola Numerata n. 6.24), scelta probabilmente motivata dal fatto che il santo di Assisi ha interpretato il vangelo sine glossa (alla lettera): il perdono cristiano infatti è talmente “assurdo” che non può essere annacquato da interpretazioni troppo semplicistiche. (…) Per noi la grazia è quando Dio esaudisce le nostre preghiere, non ciò che ci fa soffrire, ci impedisce di amare il Signore e ci occupa la mente. Allora è chiaro già da qui che quando si parla di perdono non si parla di un atteggiamento umano, ovvero di qualcosa che ci può acquistare con la virtù. Umanamente, anche quando noi arriviamo a perdonare la persona che ci ha offeso, rimane sempre qualcosa in noi, una traccia ai amarezza, di pesantezza o di rabbia. Il nostro perdono assomiglia di più ad un assopimento, ad una rabbia sopita verso le aspettative – giuste, buone – non corrisposte dalla vita. Impariamo a perdonare in qualche modo, ma non a dimenticare. Come può allora dire Francesco di considerare gli “impedimenti all’amore” una grazia? O è un masochista oppure ha scoperto qualcosa che permette di agire e sentire così.. Prima di pensare al nostro modo di perdonare, infatti, dobbiamo chiederci: qual è il modo di perdonare di Dio? Dio amministra il perdono nel mistero pasquale: è questo il modo che lui ha inventato per perdonarci. La croce è come uno spazio che Dio ci concede, in cui noi possiamo stare. Le nostre relazioni sono come quelle narrate dalla storiella dei porcospini: ci avviciniamo perché abbiamo bisogno, ma poi ci feriamo a ci allontaniamo perché ci “pungiamo”. Questi sono i nostri amori, in cui scendiamo quotidianamente a compromessi, perché abbiamo bisogno, ma l’altro ci fa stare male e allora ci dobbiamo accontentare rassegnati. La croce è il grande spazio di libertà che Dio ci dona anche se le ferite che arrechiamo nella nostra relazione con Lui non intaccano minimamente il Suo amore. Ed è con questa forza di amore che il Padre risuscita il Figlio, che si è lasciato uccidere dai nostri modi goffi di vivere la relazione e dai nostri aculei. La differenza tra noi e Dio è che Dio ama non perché ne ha bisogno, ma perché gode nell’amare e nel donare. Il massimo godimento di Dio è amare, è creare uno spazio, in cui possiamo muoverci come sappiamo e possiamo, anche con tutta la nostra potenza di morte e di ingiustizia, perché tutto questo non intacca il suo amore che è più forte. Allora Francesco non parla di un perdono umano, ma divino (..), dove il perdono è effetto di questo spazio che ci contiene. L’amore di Dio per noi non è dovuto a quello che noi facciamo per lui (preghiere, sacrifici…), ma Dio ci ha creato semplicemente per godere di noi, non gli dobbiamo niente. E questo ci spiazza, perché noi siamo abituati al do ut des (…). Questa diventa occasione unica, perché permette di essere anche dentro al peccato e lui rimane semplicemente amante. Ogni santo ha cantato questa esperienza: ‘vorrei commettere il peccato più atroce di questo mondo, per poter gustare la tua misericordia’ (Agostino). Per noi il santo è quello che non pecca, mentre il santo è chi ha coscienza chiara del proprio peccato e, più ha coscienza del proprio peccato, più gode dell’esperienza di Dio. L’esperienza della salvezza non è presentarsi a Dio senza peccato (…) ma è sentire l’abbraccio del Padre nell’esperienza del proprio peccato; non perché cancella il peccato – addirittura Gesù muore a motivo del nostro peccato e i segni del peccato resteranno sempre, anche nella risurrezione. Questa è l’esperienza fondante di cui parla Francesco: non si tratta di “essere buoni” o di passare sopra a quello che sento per dare il perdono; si tratta di offrire spazio all’altra persona, anche se questo mi farà male o mi farà morire desiderando che l’altro viva. Questo è ciò che fa Dio nei nostri confronti: vuole la nostra vita e il nostro peccato non può distruggere la sua vita. Questo non è il nostro “voler bene”, è molto di più, è un’altra logica. L’invito di Fra Mauro è stato quello di risvegliare le nostre coscienze troppo sopite o ferme ad una banale rappresentazione del perdono sollecitando un modo più approfondito (come dimostrato dai numerosi interventi dopo la riflessione) di affrontare la realtà umana. Per fare ciò è necessario fermarsi a riflettere, prendersi più tempo per se stessi in modo che la quaresima non scivoli via, ma desti nelle nostre comunità un cuore aperto e palpitante per l’altro.
Categories: Approfondimenti